Tutte le tappe intercontinentali degli sbandieratori rimangono comprensibilmente nella memoria del gruppo e le due esperienze sudamericane, per motivi diversi, rientrano nella categoria dei ricordi indelebili.
La prima occasione fu in Argentina, a Buenos Aires, per i mondiali di calcio del 1978. Non si tratta di una data da poco, e non mi riferisco al fatto sportivo, ma alla esperienza della dittatura militare che il paese stava vivendo proprio in quegli anni. Il gruppo stesso, come accadde per la squadra italiana di Coppa Davis che si recò nel Cile di Pinochet, visse il dilemma interno e le pressioni esterne sulla pertinenza di una partecipazione che in qualche maniera poteva rappresentare un avallo della dittatura militare che si stava macchiando di crimini atroci. I temi e i risvolti di quella esperienza sono complessi e meritano una riflessione ampia alla quale dedicheremo in futuro un articolo specifico.
Di ben altra leggerezza emotiva fu il vero e proprio tour sudamericano del 1991 che dal 17 al 31 ottobre portò il gruppo dall’Argentina, all’Uruguay, al Cile, fino al Brasile. L’occasione della trasferta non era certamente una Coppa del mondo, ma rappresentò ugualmente per la squadra un momento unico: quanti ragazzi, circa trent’anni fa, potevano permettersi un viaggio, una esperienza anche breve in quel continente così ambito, esotico e remoto? Appartengo ad una generazione di sbandieratori diversa, che non ha vissuto quell’esperienza, pertanto mi sono mosso a partire dal filo dei ricordi degli altri: Stefano Giorgini e Paolo Farsetti. Per quanto distante nel tempo, è rimasta nella memoria il contatto con le comunità italiane di emigrati, attorno alle quali le esibizioni assunsero un significato di forte partecipazione. Proprio sul tema degli italiani emigrati era stata “costruita” la trasferta: un convegno di delegati di giovani toscani a Buenos Aires; la colonia toscana era inoltre al centro del breve passaggio a Montevideo, dove la squadra si esibì anche per l’inaugurazione del nuovo stadio della capitale (il celebre Estadio del Centenario). Ritorno in Argentina, a Cordoba (sono ricordati gli applausi commossi di interi piccoli paesi di quella provincia, come a La Falda) e da lì entrata in Cile, a Santiago, per poi esibirsi a Valparaiso e Viña del Mar, la cosiddetta “città giardino”. Il finale della trasferta a Rio de Janeiro, presso l’università. Il tutto svolto sotto gli auspici e con l’organizzazione delle ambasciate italiane in Sud America.
“Paolone” mi ha lasciato un ricordo divertente, sul celebre singolista Barbagli, che ingaggiò per serate intere sfide a “bollini” (si, avete letto bene!!!) con lui ed altri, barando nei modi più spudorati. La semplicità del gruppo è anche questa: vista dall’alto, col senso di distanza, una trasferta nell’immenso Sud America… si trova il tempo di giocare come da bambini! Grandi distanze da percorrere e spostamenti frequenti: una costante del gruppo sbandieratori. Ci si potrebbe chiedere quanto poco tempo resti per visitare un Paese, soprattutto quando, dalla carta geografica sulla quale si appone al ritorno un’altra bandierina, si passa alla sfera delle esperienze vissute personalmente. Ho sempre pensato, col poco tempo a disposizione e i frequenti impegni quotidiani in trasferta che non ti consentono di organizzare magari una visita, una escursione a siti e luoghi che non si dovrebbe non vedere, che si tratti di uno spreco. E si conclude col dire: va bè… è solo un assaggio… ci tornerò da solo! Poi invece parli con chi partecipò ad una trasferta di questo tipo, si rileggono i giornali del tempo che ne parlarono, e si scopre quella dimensione di pathos data dall’incontro con gli emigranti. E “Steno” allora mi ha parlato di una nostra peculiarità: vedere i luoghi più disparati, recitando sempre la parte di visitatori sotto i riflettori, l’entrare in luoghi e comunità lontane, con addosso lo sguardo curioso di tanti, l’ammirazione dei bambini.
La presenza italiana, soprattutto in Cile e Argentina, è impressionante, conseguenza di una emigrazione primo-novecentesca che ha caratterizzato in maniera indelebile le costruzioni delle comunità locali e delle loro culture. Sbandierare in quei contesti negli anni Novanta era un elemento di sprovincializzazione forte sia per il gruppo, che sperimentava più in profondità, rispetto al 1978, il “nuovo mondo”, sia per quegli italiani ispanizzati che vivevano le difficoltà economico-sociali delle nazioni che li ospitavano.
Conosco personalmente quei luoghi, visitati più volte senza il gruppo: la pulizia di un cielo vivido, le stelle basse, piccoli paesi alimentati a generatori di corrente. Un Paese, il Cile, disteso verso un sud che non si raggiunge mai: una fine del mondo annunciata dalla Patagonia lontana, fra strade dritte, solo nel nord impreziosite di vigneti. Il resto è tanto vento, che ti modella la faccia e fa respirare con gusto, se hai curiosità. Sono Paesi di culture mescolate: europee, asiatiche ed indigene. Il tutto ha trovato un senso, una stabilità, attraverso processi secolari complessi, non immuni dalla violenza della politica (soprattutto in Cile la cultura indigena è stata pressoché sradicata, con la cancellazione di intere popolazioni) e dell’economia che frequentemente ha azzerato risparmi e infragilito l’avvenire delle persone.
In contesti così densamente complicati si sono spinti gli sbandieratori, portatori di coreografie, di geometrie, di dialoghi di colori capaci di comunicare abbattendo confini culturali. Lo ricordava Orlando Bruni, storica tromba del gruppo, al ritorno dalla spedizione sudamericana, concentrandosi sul significato della nostra schermaglia, così apprezzata, perché così potentemente evocativa. Non soltanto il bene e il male in lotta, dico io, ma la concentrazione sulla fatica, sullo sforzo titanico dell’uomo. Ed è nel lavoro, nella fatica, nel perfezionarsi, che probabilmente gli emigrati italiani di quel lontanissimo Sud America hanno trovato il senso di quei movimenti.
Quei vecchi italiani commossi dal saperti toscano, persone mai tornate… destino frequente delle migrazioni continentali. Oggi tutto questo ha un senso: l’incontro con l’altro, al di là delle strumentalizzazioni politiche, al di là del clima, frutto dei problemi odierni, rimane un valore imprescindibile per l’uomo. Se penso a quelle persone semplici, andate via per costruirsi una alternativa, ai loro figli e nipoti, che incontravano persone altrettanto semplici, ma vestite in calzamaglia, non posso non avere un senso di affetto, di tenerezza. Edo, il “nonno” e gli altri a firmare autografi alla gioventù brasiliana che ti ringrazia. Le persone commosse a Valparaiso. Mio fratello, all’epoca, in una intervista su “La Nazione” ricordava: “un fatto è certo: gli emigranti hanno una gran voglia di Italia”. E noi sbandieratori – concludo io – abbiamo una gran voglia di mondo, perché senza il confronto l’anima non cresce più.
da “L’Alfiere” – n. IV – 2018, pagg. 8-9