La metropoli novecentesca per eccellenza, oggi superata in estensione ed abitanti dalle megalopoli asiatiche, New York non è solamente uno dei principali simboli dell’occidente e di un particolare tipo di “americanità”, ma rappresenta un concetto quasi filosofico. E come tutti i simboli che trascendono spesso la realtà, la sua conoscenza risiede più nella superficialità dell’immaginario collettivo che nella consapevolezza della sua storia e delle sue caratteristiche sociali, ambientali e architettoniche. Riprova ne sono i giudizi entusiastici dei tanti visitatori e sognatori europei e il senso di distanza, di fastidio e addirittura di paura che nella profonda provincia americana ha evocato nel tempo. Certamente i giudizi negativi su New York hanno riguardato soprattutto i risvolti sociali del vivere in ogni grande metropoli, e quindi le stesse immagini di caos apocalittico riguardano, da parte di svariati scrittori e commentatori, tutte e tre le città che ai primi del novecento erano le più grandi e popolose del mondo: nell’ordine New York, Londra e Berlino.
Emblematico del mal giudizio nei confronti del caos, del vizio, della promiscuità e della insensatezza della vita in un immenso formicaio, l’atteggiamento di Henry Ford che, nonostante avesse qui concentrate le proprie finanze, la descriveva in un terribile libello antisemita (diffuso non a caso nel profondo sud e nella lontana provincia americana) l’origine di tutti i mali della modernità. Qui c’era l’alta finanza rapace, una vita che stritola l’individuo con spazi non più a misura d’uomo, la più alta concentrazione ebraica del paese ed una vita frenetica che allontanava le persone dai sani valori di un tempo. Ma la città ha avuto ovviamente molti cantori entusiasti, realisti e nostalgici, capaci di ricordarci in pagine acute e vibranti la multiformità di un aggregato multietnico che non si può abbracciare nella sua interezza ma va ripartito in quartieri e zone con le loro peculiarità.
Un atto d’amore in musica verso i tanti sapori di questa città lo ha espresso Billy Joel con New York state of mind, ma moltissimo jazz ha fatto lo stesso, celebrando i fasti di quel Greenwich Village, sede dei locali dove si suonava fin dagli anni venti uno dei generi che più ha rivoluzionato il novecento. La cinematografia è ovviamente sterminata ed ha dipinto New York in modo neutro, trionfale quanto sinistro. Tre immagini, a mio parere, la rappresentano emblematicamente in altrettanti momenti storici differenti: la prima parte di C’era una volta in America, con la Brooklyn cenciosa degli immigrati irlandesi tedeschi e italiani; Quei bravi ragazzi di Scorsese, gli anni sessanta e il malaffare mafioso (ripensate alla inquadratura dal basso a salire della Cadillac rosa coi due cadaveri mentre risuona il finale di Leyla…. poesia del cinema); I guerrieri della notte… al di la della storia in sé, una celebrazione della metro di New York, di Central Park e di quanto la periferia sia espulsa da Manhattan dagli anni settanta in poi (“abbiamo combattuto tutta la notte per tornare in questo posto di m.” – cioè Coney Island, ad anni luce da Broadway e Times Square). Alla Grande mela si dedicano libri interi quindi un breve articolo può solo fornire qualche spunto rapsodico e del resto una storia delle origini della città la si trova facilmente in rete. Concluderò quindi con alcuni cenni che reputo utili a definire alcune direttrici concettuali di New York e della sua essenza di “città speciale”. Se NY vanta una origine italiana con Giovanni da Verrazzano, è agli olandesi che si deve il primo insediamento, quando nel 1626 Peter Minnewit acquistò dagli indiani l’isola di Manhattan e vi costruì il forte Amsterdam. Su Manhattan venne eretto un muro per separarsi dal resto del territorio e lasciare la popolazione indigena dall’altra parte e proprio a questo muro si deve l’origine materiale di Wall Street, sinonimo di borsa in tutto il mondo. Nell’originaria Nuova Amsterdam, abitata da profughi protestanti di ogni parte d’Europa subentrarono gli inglesi nel 1664. Il successivo sviluppo della città fu dovuto alle sue caratteristiche geografiche: il fiume Hudson e la sua valle erano la via di penetrazione per eccellenza verso l’interno del paese e verso il Canada. Con la metà dell’ottocento e la nascita della ferrovia la crescita economica e demografica divenne esponenziale e NY era ormai il punto di contatto per eccellenza tra Nord America ed Europa e tra Canada e Stati Uniti. Il novecento, dopo la prima guerra mondiale, è il secolo della società di massa, dell’ingresso delle moltitudini nella storia e, ancora di più oggi, con un mondo ed una civiltà globalizzati, NY è assurta a simbolo del melting pot, di quell’insieme di condizioni antropologiche, politiche, sociali e culturali che caratterizzano la percezione stessa del vivere odierno, dove si incontrano e scontrano dinamiche esistenziali così diverse da rendere ogni definizione parziale e soggettiva.
Arrivando oggi a New York dalla terra ferma in autobus, da sud, si scoprono prima le periferie industriali e poi dopo una curva dolce, di colpo appare lo skyline iconico di Manhattan dal quale ormai è espunto quel World Trade Center, spartiacque del nuovo millennio. E se la distruzione violenta di due torri ha voluto sfregiare un simbolo dell’occidente, resteranno per sempre, fortunatamente, quei palazzi di fine ottocento in mattoni e acciaio che erano i quartier generali delle grandi compagnie commerciali. Di NY, bella e triste, cupa e scintillante, complicata e a misura d’uomo se si resta nel proprio piccolo angolo di strada, resteranno per sempre i treni che la sera portano i lavoratori di Manhattan verso le case “normali” al di là dei ponti. Perché NY non è solo la Manhattan dei turisti e dello shopping natalizio, ma un luogo dove milioni di persone vivono lontano dalle luci glitterate e dove storcendo con nostalgia la bocca un poeta afroamericano, in musica si ostinava a dire: “New York City…I don’t know why I love you…” (ma questa è un’altra storia…ai curiosi cercarne testo e autore).
da “L’Alfiere” – n. II – 2016, pagg. 6-7