Nel film Alatriste: il destino di un guerriero (con protagonista Viggo Mortensen) l’interesse del re Filippo IV di Spagna nei confronti delle Fiandre viene definito una vera e propria ossessione, mentre per i soldati lì impegnati si trattava di un “inferno dal sole nero”. Le ragioni andavano ricercate soprattutto nella inclemenza di un territorio, l’attuale Belgio ed Olanda, e della meteorologia. Nebbia, pioggia, acquitrini e paludi… davvero troppo per le armature del Seicento e nonostante che proprio la Spagna avesse costituito la rinomata e temibile Armata delle Fiandre. Nel contesto degli scontri fra spagnoli e francesi nella guerra dei Trent’anni, l’armata introdusse, fra l’altro, per la prima volta il fucile, in sostituzione dei precedentemente usati archibugi e moschetti.
Il motivo di questo inizio “cinematografico” risiede nel sapore che mi ha sempre accompagnato di un luogo peculiare e raccolto come il Belgio che in quel film viene così bene illustrato: tanto inospitale quanto bramato da tutti per l’eccellenza della sua civiltà dell’impresa, l’architettura estremamente elegante, una campagna strappata all’inclemenza climatica dal lavoro estenuante dell’uomo e da quei monaci che hanno “inventato” le birre trappiste.
Gli Sbandieratori hanno visitato e si sono esibiti in Belgio in varie occasioni, alcune di queste molto indietro nel tempo, all’interno di festival internazionali del folklore: nel 1967 a Saint Niklaas, l’anno successivo a Lovanio (replicata esattamente dieci anni dopo) e nel 1971 nella bellissima Anversa.
Più recentemente si sono svolte le tre trasferte nella capitale Bruxelles, nel 1989, nel 1993 e infine nel 2003. All’ultima di queste spedizioni partecipò anche chi vi scrive. Di quella esperienza di venti anni fa ricordo soprattutto due elementi: l’esibizione nella meravigliosa piazza centrale – la Grand Place – (dove ottenemmo un successo notevole, sottolineato dall’entusiasmo meravigliato del pubblico) e la fotografia intorno alla Manneken Pis, la celebre statua del bambino che fa la pipì. Si tratta di un’opera del XIV secolo ed è uno dei simboli più distintivi della città. La sua origine è oscura e varie leggende cercano di spiegarne il significato. Fra le più note, quella che vorrebbe celebrare la sagacia di un bimbo che avrebbe spento una fiamma urinandoci sopra, salvando così la città da un incendio.
Delle esibizioni a Bruxelles rimasi particolarmente colpito dallo stupore del pubblico locale nei confronti della nostra tecnica con le insegne. Credo che il motivo risieda soprattutto nella differente tradizione della bandiera che caratterizza il Belgio. Che si tratti dei notissimi trampolieri belgi o di altri vessilliferi, le bandiere che maneggiano sono di dimensioni assai maggiori delle nostre e quindi non consentono evoluzioni o scambi fra alfieri. Nelle varie occasioni, soprattutto in Germania, dove abbiamo incontrato i belgi con la bandiera, ho avuto alcuni confronti con loro e ho potuto notare la ricchezza dei fregi decorativi e la bontà della costruzione dei tamburi. La tradizione dei tamburini, come quella dei costumi è più spostata in avanti rispetto alla nostra, riferendosi proprio al quel XVII secolo che ricordavo all’inizio di questo articolo. Le vicende belliche che hanno condizionato la terra fiamminga e lo sviluppo delle sue principali città hanno chiaramente influenzato il folklore locale. Le esibizioni degli sbandieratori di Arezzo in Belgio hanno avuto successo – credo – proprio per l’inedita rappresentazione di uno stile e di una rappresentazione del folklore assai diversa da quella che caratterizza quel particolare settore dell’Europa del nord, dove il medioevo è stato in qualche misura sostituito nella memoria pubblica dall’epoca d’oro delle Fiandre, con al centro il commercio dei diamanti tanto distintivo nella città portuale di Anversa.
C’è una fotografia particolarmente iconica che ritrae gli sbandieratori esibirsi di fronte al monumento dell’Atomium, nel parco Heysel di Bruxelles. Quello scatto risale alla trasferta del 1989, momento nel quale si stavano per decidere le sorti del più grande allargamento della Comunità europea. Pensiamo infatti che l’apertura verso est fu proprio conseguenza della fine della guerra fredda e del crollo del sistema comunista internazionale e del Patto di Varsavia.
Nel riferirmi a queste vicende faccio una evidente concessione al significato ultimo del processo di integrazione europea: la sua costante volontà di mediazione politica che rende l’Europa di Bruxelles una realtà insostituibile, preziosa, addirittura salvifica, ma allo stesso tempo fortemente contraddittoria. Il Belgio è forse il paese che più rappresenta queste incongruenze della casa comune europea. Si tratta di uno degli stati fondatori (assieme a Olanda, Lussemburgo, Italia, Francia e Germania occidentale) ed ospita numerose sedi istituzionali della attuale UE, e Bruxelles è addirittura sinonimo di quei meccanismi dell’europeismo che ha vissuto e continua a vivere numerose contraddizioni percepite dalla popolazione del continente con un misto di distacco e scetticismo. Se il Belgio (e Bruxelles in particolar modo) fanno da specchio alle contraddizioni d’Europa è per quel misto di modernità e tradizione che si coniuga sempre in maniera zoppicante ed intricata. Anche dal punto di vista architettonico le bellezze dell’antichità di centri come Gand, Bruges, Anversa e Lovanio contrastano fortemente col quartiere moderno che ospita a Bruxelles le istituzioni comunitarie. Simbolo ne è il Palazzo Berlaymont, sede della Commissione, edificato dove in precedenza era ubicato l’antico Convento delle Suore del Berlaymont.
Le feste del folklore che ci hanno ospitato nei decenni rimangono alcune delle più importanti d’Europa, a dimostrazione della centralità della cura del passato per un paese che è stato devastato per secoli da conflitti bellici, nonostante il manifesto pacifismo dei governi del Belgio. Per questo, proprio l’ancoraggio al folklore assume un significato esorcizzante rispetto alla storia dei drammi delle guerre che, fino alla prima metà del Novecento, hanno spazzato via intere generazioni. Se non posso che apprezzare questo tentativo di conciliazione col passato difficile dei drammi bellici attraverso la promozione del folklore, rimangono comunque dubbi notevoli sulla volontà politica di chiarire le responsabilità interne di un paese che ha scaricato sul suolo africano una pulsione sterministica fra le più abiette della stagione dell’imperialismo europeo. Il Belgio del re Leopoldo II ha compiuto infatti quel raccapricciante genocidio nel Congo, proprietà privata del sovrano, dove con il consenso delle classi dirigenti europee, più di dieci milioni di persone vennero trucidate. Questo riferimento mi pare doveroso nel momento in cui mi trovo a celebrare l’attivismo della memoria di un paese attento a tradizioni del passato che non sempre possono aver visto il Belgio vittima dell’aggressività e della violenza agita dall’esterno.
La bellezza dei ricordi degli sbandieratori in terra di Fiandre resta intatta, fra squadre diverse che ci sono state e diverse realtà incontrate: dalla magnificenza della cattedrale di Lovanio, alla spettacolarità dei fregi dei palazzi cinquecenteschi della Grand Place di Bruxelles. In ognuno di questi luoghi abbiamo ricevuto entusiasmo, sorrisi ed applausi che ci hanno ripagato almeno quanto la fragranza delle celebri patate fritte e della schiuma croccante delle centinaia di birre locali.
da “L’Alfiere” – n. II – 2023, pagg. 8-9
Simone Duranti