È una ben strana estate, questa. Qui parliamo di Saracino, ovviamente. Viviamo in apnea questa privazione delle due edizioni della nostra splendida manifestazione, come se volessimo credere che questo 2020 sabbatico sia una specie di limbo che ci separa dalle prossime Giostre, che certamente saranno più attese che mai. Pace se Piazza Grande oggi non è coperta dalle tribune e dalla lizza, bensì dai tavolini di bar e ristoranti, ma Arezzo e Giostra sono simbiotici.
Dopo l’unico precedente d’interruzione dovuto agli eventi bellici, cui fece seguito un sostanziale quanto inevitabile disinteresse durato qualche lustro, il Saracino ha da molti decenni, e a buon diritto, permeato l’anima degli aretini, pervadendo la cultura e le abitudini non solo dei quartieristi più sfegatati.
Tanti sono i segnali che rimarcano questa rinnovata quanto ormai solida liturgia “laica”: da chi ad esempio si fa tatuare sulla pelle simboli dei propri colori, a chi espone alla finestra tutto l’anno i vessilli, a chi fa squillare il proprio cellulare con l’inno “Terra d’Arezzo”, financo – ahimè – a chi chiede che almeno un fazzoletto del proprio Quartiere accompagni… l’ultimo viaggio terreno; per non tacere del recente “battesimo del quartierista”. Tradizioni sempre più consolidate, che tanto somigliano a quelle assai radicate dei “cugini” senesi (il cui amore per il Palio e la contrada sfocia non di rado nel parossismo), ma che lumeggiano l’identificazione degli aretini verso la propria rievocazione storica.
Siccome alla fin fine di una gara si parla, ecco che vi germoglia, immancabile, la scaramanzia. Crediamo che pochi appassionati di Saracino omettano di praticare almeno qualche scongiuro, ma siamo certi che tra quartieristi, figuranti e ovviamente giostratori nessuno sia del tutto immune.
E a partire dalla tradizionale cena “propiziatoria”, neanche noi Sbandieratori ci facciamo mancare nulla e snoccioliamo i nostri bravi riti scaramantici nell’affrontare l’esibizione di Piazza Grande. Negli anni cambiano le persone e quindi ognuno ci aggiunge del suo, ma ci sovvengono gesti, tic e ossessioni che testimoniano la tensione che precede l’esibizione, la necessità di concentrazione che si accompagna al rituale preparatorio.
Come dimenticare il bicchierino di vinsanto che il compianto Enzo Bidini versava a tutti prima della sfilata, cerimonia etilica poi … convenientemente differita a fine Giostra al rientro in sede (tradizione oggi portata avanti dal “lucco” Gino Monaci).
Come non ricordare quando il sabato in prova si “segnava il campo” marcando la propria mattonella, e la mattina della domenica si risaliva in Piazza per ripassare le posizioni, che tanto poi in Giostra non tornavano, visto che i primi che si fermano sulla lizza si mettevano a caso e facevano andare tutti fuori posto.
Pensiamo ancora allo strofinar dei palmi sullo stipite in pietra arenaria di un preciso uscio in Borgunto, quando le mani sudano non solo per la calura estiva ma anche la “strizza” di chi sta per entrare di corsa ad affrontare il giudizio dell’esigente pubblico aretino: sorta di magica “polvere di magnesio” che richiama alla mente i ginnasti, ma che aiuta nel maneggio delle bandiere.
Ricordiamo chi si lasciava per giorni crescere la barba per poi radersi solo la mattina della Giostra; chi non esce di casa senza certe caramelle di zucchero nella scarsella; chi deve oltrepassare la linea della lizza sempre con lo stesso piede, chi si concentra in silenzio e in disparte, ripassando il “saggio”; chi si sistema in un preciso ordine le bacchette di riserva dentro lo stivale; chi colora col nastro a suo personale criterio il “cuoietto” della bandiera.
Non tutto si può svelare (sennò mica funzionerebbe!), ma chissà che una delle prossime volte anche un profano non riesca a intuire qualcuna delle nostre piccole manie. Perché, come diceva il grande Eduardo … essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male!
da “L’Alfiere” – n. III – 2020, pagg. 2-3