Nel tempo libero, tra una esibizione e l’altra, andavamo a passeggio per le vie del centro per lo più alla ricerca del negozio dove poter concretizzare l’agognato acquisto di un’apparecchiatura elettronica in grado di soddisfare le aspettative tecnologiche e le finanze. Io riuscì finalmente a localizzare e raggiungere la banca presso la quale tentare di cambiare l’assegno che avevo portato dall’Italia. Entrai in un salone di dimensioni smisurate e lì ebbi il timore che, senza sapere una parola di giapponese e poco di inglese, l’impresa non sarebbe andata a buon fine. Al contrario riuscirono a capire, mi fecero compilare un modulo che dovetti firmare depositando la mia impronta digitale, precedentemente inzuppata in un inchiostro rosso oleoso e, dopo aver verificato il titolo, mi consegnarono un pacchetto di yen che contai e ricontai varie volte. Il centro di Tokyo era in continuo fermento: gente che camminava ordinatamente ma frettolosamente, traffico automobilistico intenso, taxi, autobus, treni e metropolitane che attraversavano la città su rotaie e arterie sopraelevate o sottoterra; un caos ordinato che ci lasciava sbalorditi. Tanto per dire ad Arezzo, all’epoca, non avevamo ancora neppure il privilegio dei sensi unici. Tutto sembrava tecnologicamente perfetto e le persone, freddi automi, circolavano consapevoli di percorsi e ordinati comportamenti. Mentre camminavamo in un marciapiede Enzo urtò involontariamente un ragazzo che procedeva in senso opposto, voltandosi per scusarsi rimase per un istante incredulo per poi esclamare: “Kato Kazuo”, e i due si abbracciarono felici di potersi rivedere. Kato (anche in questo caso scrivo per come mi ricordo la pronuncia) anni prima era stato studente in Italia dove aveva conosciuto Enzo e ora, straordinariamente, si erano incontrati casualmente tra i milioni di abitanti che popolavano Tokyo. Kato, che parlava abbastanza bene l’Italiano, ci fece compagnia e da guida per tutto il tempo, aiutandoci negli acquisti e mostrandoci alcune particolarità. Viaggiando per la città ricordo i grandi parchi con alberi fioriti dove schiere di persone di ogni età praticavano discipline motorie orientali; molte donne e qualche uomo, non più giovanissimo, indossavano abiti tradizionali. Già all’epoca, forse per prenderci confidenza, molte persone indossavano la mascherina, pratica che noi, avendone capito l’utilità, condividiamo solo ora (non proprio tutti ma…quasi tutti). A proposito di persone in abiti tradizionali, ricordo una scena che ancora mi fa sorridere: nella hall del nostro straordinario hotel incontravamo spesso un signore con un vistoso kimono che si sforzava di parlare con noi quando transitavamo in costume. Impeccabile e molto impostato tentava, con un po’ di inglese, di capire chi fossimo e cosa facessimo così vestiti. Purtroppo non immaginava con chi avesse a che fare perché con altrettanta, ma apparente, serietà il nostro Testi, con tono assertivo gli disse: “Ah, tu sei Cinese….”. Fortunatamente l’omino non aveva con sé la sua Katana, che non avrebbe esitato a sguainare, ma con fare disgustato gridò: “Nooooo … Japanese” e sdegnato se ne andò. Questo popolo apparentemente freddo, calcolatore, organizzato e disciplinato, al calare della sera si trasformava: le strade si popolavano di bancarelle che vendevano i più svariati cibi, di indovini che, semplicemente seduti su una sedia al lume di una candela, facevano le carte o leggevano la mano a quanti decidessero di avere qualche indiscrezione sulla vita o su chissà quale altra situazione sentimentale o economica. Questi due mondi, che apparentemente cozzavano l’un l’altro, forse servivano a riequilibrare l’esistenza di tante persone che, con un po’ di illusione, cercavano di superare la noia del “tutto precisamente programmato”. Kato, per farci conoscere qualche aspetto della vita notturna della metropoli, ci accompagnò in diversi locali. In uno di essi gli spettatori stavano silenziosamente e ordinatamente seduti, quasi nascosti nella penombra delle ultime file, intenti ad assistere ad uno spettacolo di spogliarello. L’ingresso del nostro gruppetto non passò inosservato e tutta la prima fila fu occupata. La spogliarellista non si rivelò all’altezza dello spettacolo che avrebbe dovuto rappresentare e anche il lato estetico lasciava a desiderare: il sorriso, costellato di denti dorati sparsi qua e là, dava il colpo di grazia. Il lato ironico e goliardico prese immediatamente il sopravvento e cominciarono ad essere impartiti, ad alta voce, consigli e suggerimenti e finanche un affiancamento sul palco per mostrare i movimenti e gli atteggiamenti consigliati. Il pubblico giapponese, all’inizio incredulo, dimostrò di apprezzare il diversivo e anch’esso iniziò a partecipare e a ridere insieme a noi degli sketch improvvisati. Si divertì anche la spogliarellista, forse perché finalmente interpretava un ruolo diverso da quello ripetitivo di ogni giorno.
da “L’Alfiere” – n. I – 2022, pagg. 8-9
Carlo Lobina