Avendo di fronte uno dei fondatori della nostra Associazione, la prima domanda non può che essere legata ai ricordi dei primi anni. Come ti sei avvicinato al Gruppo e cosa ti è rimasto nel cuore?

Nel cuore c’è rimasto tutto. Ricordo esattamente quando fummo convocati, nel dicembre 1959, presso l’Ente Provinciale del Turismo dal dott. Droandi e dal Prof. Dini. In quell’occasione mi fu assegnato il costume di San Giovanni Valdarno, che sarebbe poi passato a mio fratello e al quale sono rimasto legato per tutta la vita. Io mi sentii onorato in quanto ero già cosciente, non ancora quindicenne, di quello che sarei andato a fare.

Poi cominciarono gli allenamenti, coordinati da coloro che sapevano già maneggiare la bandiera, essendo stati sbandieratori nei quartieri, come Imparati, Toci, Ridolfi e altri. A seguire le prime trasferte a Massa Marittima, San Remo e la prima volta in Spagna. Esperienze bellissime, perché in quegli anni, soprattutto per i ragazzi della mia età, non c’era la possibilità di partecipare a manifestazioni importanti, specialmente all’estero. È anche per questo che sono rimasto sempre profondamente riconoscente a questo gruppo. Ancora oggi mi emoziono ogni volta che vedo uno spettacolo degli Sbandieratori e ogni volta che ricordo il passato. Infine vorrei sottolineare il grandissimo affiatamento all’interno del Gruppo. Anche allora, come in tutte le associazioni, non era sempre tutto “rose e fiori” ed esistevano profonde divergenze di vedute. Ma alla fine si trovava sempre il modo di fare una sintesi e di andare avanti.

Poi, per motivi familiari, ti sei trasferito in Umbria, senza mai perdere la passione per la bandiera.

Sono rimasto all’interno del Gruppo fino al 1963, anno della prestigiosa trasferta di Copenaghen. Nonostante abitassi già a Terni, mi impegnai per buona parte del 1963 a fare “avanti e indietro” e avrei continuato tranquillamente, ma essendo entrati nel frattempo nuovi sbandieratori, non c’era giustamente più bisogno del mio contributo. Poi rientrai attivamente dopo il servizio militare, rimanendo fino al 1971, anno in cui mi sposai e mi trasferii in Umbria, lasciando definitivamente il Gruppo. Ci tengo a precisare che sono stato uno tra i primi critici della vecchia gestione aretina, nel momento in cui si decise di esportare questa passione, andando a fondare numerosi gruppi in tutta Italia. Ho avuto anche accese discussioni per questo motivo e fino a che ho fatto parte del gruppo di Arezzo, non avrei mai accettato di andare a fondarne un altro da un’altra parte.

Come è nata la tua seconda esperienza da sbandieratore in quel di San Gemini?

La passione era ancora tanta e mi si presentò un’opportunità. Ebbi modo di visitare San Gemini in occasione della festa paesana e, dal momento che si esibivano ogni anno sbandieratori chiamati da altre città italiane, mi proposi di fondarne uno proprio a San Gemini. La proposta fu accolta positivamente da uno dei due rioni, il Rione Rocca. Fu così che nel 1974 nacque il gruppo sbandieratori, come espressione di uno solo dei due rioni, ma con una clausola che imposi sin da subito, ovvero che entro due anni sarebbe dovuto diventare il gruppo rappresentativo di tutta la cittadina. E così fu, nonostante qualche reticenza iniziale dovuta alla rivalità esistente tra Rione Rocca e Rione Piazza.

Le basi e il modo di sbandierare che ho portato a San Gemini sono indubbiamente quelli della scuola aretina. L’impostazione è quella militare. Sono sempre stato un po’ rigido nel dirigere il gruppo che ho fondato, prestando sempre grande attenzione alla disciplina, al rispetto delle regole e al modo di presentarsi al pubblico. Devo dire che onestamente, in quasi 2000 uscite fatte con Gruppo di San Gemini, non ho mai avuto un reclamo da parte degli organizzatori. Anzi all’estero si meravigliavano della nostra puntualità. E questo è un motivo di enorme soddisfazione.

Oggi sono socio onorario e partecipo quando mi viene chiesto un consiglio. Io però amavo essere con i ragazzi e starci in costume, possibilmente sbandierando. Non mi è mai interessato il ruolo di accompagnatore o quello di “capo in giacca e cravatta”.

Ci puoi dare qualche consiglio su come riuscire a mantenere nel tempo il gruppo ad un alto livello?

Credo che uno dei segreti sia cercare sempre di attrarre quei ragazzi che mi piace definire “sbandieratori con la bandiera nel cuore”. Ad esempio, anche nel mio periodo all’interno del Gruppo di Arezzo, c’è stato chi ha dato tanto e chi meno, come è normale che sia. Quando intraprendi un percorso del genere e ci credi fino in fondo, sposi una passione che non ti lascerà mai e, anche di fronte a screzi e a rapporti difficili, se hai la bandiera nel cuore rimani attaccato a quella passione. E questo molte persone che sono passate nel gruppo non l’hanno dimostrato e sono riuscite persino ad abbandonare il gruppo da un giorno all’altro, senza alcun problema. Un altro aspetto determinante è quello comportamentale. Quando ad esempio mi sono trovato a dirigere il Gruppo di Sangemini, rendendomi disponibile ad insegnare ai ragazzi a sbandierare, ho messo bene in chiaro quale doveva essere il comportamento da seguire. Sono stato l’amico di tutti e devo dire che i ragazzi non mi hanno mai deluso né tradito, anche perché se avessero sgarrato sarei stato abbastanza duro. È così che tutti mi hanno sempre portato rispetto, condividendo con me quella che era la linea da seguire. Diciamo quindi che i due ingredienti che non devono mai mancare sono la passione e il rispetto, quest’ultimo inteso in senso ampio, nei confronti dei colleghi, del pubblico e degli organizzatori. Infine, un altro aspetto che alla lunga sicuramente paga è la professionalità. Io ho sempre cercato di far capire anche agli organizzatori che la qualità ha un valore e che gratis, ad esempio, noi non ci muoviamo.

Per concludere, qualche critica costruttiva?

Non posso dire nulla sul Gruppo di Arezzo. C’è stato però un periodo qualche anno fa, in cui il modo di sbandierare era un po’ cambiato, in peggio secondo me. Io penso che i balletti con la bandiera li devono fare quei gruppi che li hanno sempre fatti, non il Gruppo di Arezzo. A me piace lo sbandieramento tradizionale, quello inquadrato che ho imparato da giovane. Questo però non significa che non si debba osare, anzi. Io credo nel dinamismo, penso che il movimento della bandiera debba essere continuo, che gli scambi debbano essere impegnativi e spettacolari, anche se ciò comporta inevitabilmente un aumento della difficoltà e del rischio. Infine consentimi un’ultima riflessione. Nel profondo rispetto che ho sempre nutrito nei confronti del dott. Droandi e del prof. Dini, non ho mai condiviso la scelta di sfilare senza sbandierare, con il pubblico che invece si aspetta lanci e movimenti continui. Credo che si possa essere precisi anche muovendo la bandiera e penso che dovreste provare a lavorare su questo aspetto.

 

da “L’Alfiere” – n. III – 2020, pagg. 4-5