Quest’anno per me e la mia famiglia ricorre un anniversario particolare: i vent’anni da quando Carlo Dissennati ci ha lasciati. Sarebbe impossibile descrivere in poche righe la figura del nonno, un uomo “formidabile” ben voluto da tutti, amante spassionato della sua Arezzo per la quale ha speso energie a profusione e scritto pagine infinite nel quotidiano La Nazione. Per questo non mi rimane che ricordarlo con un racconto, una storia che ha cambiato la mia vita.
Tutto ebbe inizio nell’estate del 1996, momento in cui la fiamma della Giostra si accese nel mio cuore per non spegnersi mai più. Fin da quando ero piccolo ho sempre seguito il Saracino come tutti i bambini, andando alle prove in piazza, ammirando i cavalli durante il corteo storico per le vie del centro e seguendo la sfida a Buratto davanti allo schermo di casa. La mia fede era biancoverde e il desiderio era indossare l’ambito costume dei bambini, quello del paggetto, al quale le regie televisive del tempo, durante l’entrata in piazza, dedicavano circa un quarto d’ora d’inquadratura fregandosene altamente del resto dei figuranti che seguivano. Ma è proprio mentre cullavo il sogno di infilarmi il vestito con lo spennacchio biancoverde che un pomeriggio di giugno fui colto di sorpresa da una richiesta del mio amato nonno Carlo: durante le prove in piazza mi presentò alcuni dirigenti di Palazzo Alberti e davanti a loro mi chiese se avessi voluto fare il paggetto di Porta Crucifera. Io inizialmente rimasi un po’ male, ma alla fine mi feci forza e gli risposi di no, perché il mio babbo mi aveva spiegato che ero nato in Sant’Andrea e di quel quartiere sarei dovuto rima nere per sempre. Non so se per il nonno quello fu un colpo basso, considerando che nel 1958 vinse una Lancia d’Oro da Capitano di Porta Crucifera, ma la sua trasparenza d’animo era più forte di ogni imposizione.
È così che il giorno dopo quell’incontro mi portò per mano nella sede di Porta Sant’Andrea e mi fece socio del Quartiere: tessera n.128, anno 1996, Rettore Faliero Papini. Il nonno però sapeva che non sarebbe stato facile trovare un posto per la Giostra di settembre, per questo cercò di accontentarmi in un altro modo, sapendo di farsi anche l’ultimo più bel regalo che la vita gli poteva riservare a distanza di poco tempo. Un pomeriggio in piazza San Francesco Carlo mi presentò Pasquale Livi, allora Direttore Tecnico degli Sbandieratori, che dopo avermi salutato esordì dicendo: «Tranquillo Saverio, te lo faccio fare io il paggetto!». Ma quale paggetto, mi bastò poco per realizzare che nella Giostra di settembre sarei diventato… uno sbandieratore! È così che il nonno una sera mi portò a casa di una signora in zona Saione: era piccola e dai capelli bianchi, ma con un sorriso ed una carica che mi colpirono, si chiamava Nara. Fu lei che mi prese le misure di spalle, torace, vita e fianchi per realizzare una mini “pazienza” da alfiere. Ricordo ancora che quando andavamo a trovarla era sempre un passo avanti col lavoro (rigorosamente fatto a mano) e rimasi impressionato per la dovizia con cui inseriva dei durissimi bulloni nella veste, che servivano da ornamento tra i nastri dorati cuciti sulla stoffa blu accesa. Nel mese di agosto, dopo aver trovato anche la maglia color panna, la calzamaglia beige e gli stivali della mia taglia (che in realtà erano da cow boy), passammo per l’ultima volta dalla Nara per la prova finale; mi rivestì tutto e mi fece guardare allo specchio: sì, mi aveva fatto diventare un vero sbandieratore! Al nonno Carlo, presidente della gloriosa Associazione da 33 anni, gli brillarono gli occhi. Ma il suo sogno ancora era a metà dell’opera. Con l’avvicinarsi della Giostra del primo settembre del 1996 la voglia di indossare quel costume cresceva sempre sempre di più, fin quando, arrivati al mattino della festa, il nonno mi fece vestire quegli abiti tanto voluti e mi portò in Piazza Grande: tutti mi guardavano e Carlo era orgogliosissimo di me. Mi fece un sacco di foto sulla lizza, davanti al Buratto e con delle amiche di scuola che trovai per caso. Di ritorno a casa, in via di Pescaja, due ragazzine ridacchiarono nel vedermi, chiedendosi “ma di che quartiere è quel bambino?”, ma furono prontamente redarguite dal nonno che rispose a gran voce: “Sbandieratori!”.
Il pomeriggio della sfilata fu indimenticabile, a partire dal ritrovo nella sede dell’Associazione, allora nel palazzo Lappoli di Piazza Grande, dove era pronta la bandiera blu fatta apposta per me dalla sarta e dove “Tonz” mi fece i complimenti per gli stivali da cow boy; tra le tante emozioni del corteo non mi scorderò mai il gesto di Nara, che mi aspettò tra via Guido Monaco e piazza San Francesco per rimettermi il vestito apposto e darmi un po’ d’acqua. Poco dopo sarei entrato in Piazza Grande, con la bandiera al vento e l’orgoglio di calcare quella lizza, così piccolo ma così fiero. Durante la Giostra passai tutto il tempo con il paggetto di Sant’Andrea che in quell’edizione, neanche a farlo apposta, era la figlia del grande Martino Gianni, Beatrice. Ci facemmo forza a vicenda, perché il Saracino lo vinse Santo Spirito dopo 25 giostre di digiuno, dal 1984. Solo diversi anni più tardi capii che quella bandiera e quel vestito furono preparati su richiesta del nonno Carlo, perché sapeva che quel male inguaribile lo avrebbe portato via, ma il sogno di vedere il suo nipotino vestito da Sbandieratore della Giostra no, non glielo ha levato nessuno. Il 4 novembre 1996, giorno di San Carlo Borromeo, il nonno se ne andò lasciando un grande vuoto in tutta Arezzo e nel cuore delle persone che lo amavano. Nel mio, invece, ha trasmesso tutta la sua passione per la Giostra, la cosa più bella che ogni giorno mi fa pensare a lui.
E di questo, non finirò mai di ringraziarlo.
da “L’Alfiere” – n. II – 2016, pagg. 4-5