Tra le vie storiche aretine la più lunga, ad oggi, è sicuramente via Garibaldi, che col suo tracciato semicircolare abbraccia la parte più antica della città: essa, infatti, ricalca da fuori la cinta muraria di età comunale. Al suo esterno si estendevano ampi spazi coltivati, assieme a borghi, chiese e monasteri extramurari: tutto ciò venne incluso nel circuito di mura edificate dai Tarlati all’inizio del XIV secolo. In tale contesto, questo tracciato viario rappresentava una cintura tra il nucleo storico già densamente urbanizzato e spazi ancora agricoli ed edificabili. Per questo motivo, il primo tratto di tale via (in particolare il lato esterno), da San Clemente fino all’incrocio con via Madonna del Prato, cominciò a divenire la sede prescelta per l’edificazione di nuovi monasteri femminili o per l’inurbamento di altri che vennero a trovarsi fuori dalle mura. Fu così che questo percorso assunse il nome di via Sacra, che mantenne fino all’Ottocento.
Si trattava, dunque, di un vero e proprio distretto religioso, in cui le monache, nell’arco dei secoli, trovarono ampi spazi per i loro edifici, spesso caratterizzati da un’architettura semplice, a due piani, con un chiostro interno e vasti appezzamenti di terreno, che giungevano fino alle mura, da dedicare a orti e giardini. Già nella visita pastorale del 1583 il legato apostolico poté descrivere ben dieci monasteri sulla via Sacra, all’incirca gli stessi che si potevano ancora vedere nei primi anni dell’Ottocento, quando fu redatto il catasto leopoldino.

L’inizio della via, in corrispondenza dell’incrocio con le vie di San Clemente e di San Domenico, era caratterizzato dalla presenza dell’ordine camaldolese: sulla sinistra, infatti, si trovava il monastero di San Benedetto delle monache camaldolesi, oggi Casa Pia, con annessa chiesa, ancora esistente; sulla destra, invece, c’era l’ospizio dei Camaldolesi, con uno spaccio che si apriva sulla via Vecchia, dove avvenne il miracolo della Madonna del Conforto, e una cappella, posta sulla via Sacra. Ancora conservato è pure l’edificio che ospitò il monastero di Santa Maria Novella delle monache domenicane, fondato nella seconda metà del Trecento. In questo luogo si trovavano pregevoli opere d’arte, poi trasferite: degli affreschi di Giovanni d’Agnolo di Balduccio, datati 1414, e una pala con l’Annunciazione del Vasari (1563). Dove attualmente si trova la Guardia di Finanza, invece, esistevano precedentemente il monastero e la chiesa dello Spirito Santo, la cui edificazione fu voluta, a metà del XVI secolo, dall’omonima compagnia, che qui aveva la propria sede e un ospedale. In questo edificio, ultimato nel 1553, furono riunite le monache benedettine che si trovavano in diverse sedi extramurarie.
Dopo l’incrocio con via san Lorentino e il fianco di palazzo Concini Barbolani si trovava il monastero di Sant’Orsola delle agostiniane: si vede ancora l’iscrizione posta sul suo ingresso, al civico 187. Esso confinava con l’antica e facoltosa compagnia della Santissima Annunziata, che, dopo l’edificazione della grandiosa chiesa, si propose di erigere un monastero alla sua sinistra (l’edificio che oggi è il convitto Santa Caterina). Siccome il monastero delle agostiniane era molto povero, queste si trasferirono nel 1588 nel nuovo cenobio della Santissima Annunziata. Proseguendo, l’edificio confinante, che attualmente ospita il Liceo Vittoria Colonna, era il monastero di Santa Margherita, fondato intorno all’inizio del XIV secolo dalle terziarie francescane. A partire del 1478 il monastero cominciò a ospitare le clarisse dei monasteri periurbani di Pionta e Montecalbi. Anche all’interno delle mura esisteva già un cenobio di quest’ordine, il Monastero di Santa Chiara Vecchia, fondato nel XIII secolo lungo la via Sacra, dove adesso si apre via Guido Monaco; venne così definito a partire dal 1472, quando si decise la costruzione di un nuovo monastero dedicato a Santa Chiara, in questo caso detta Novella: questo sorse lungo la via di Porta Buja, nel luogo in cui, dopo la sua distruzione, fu eretta la Caserma Cadorna.

Dopo l’incrocio con via di Porta Buja, nell’edificio ancora in parte esistente al civico 157, si trovava il monastero di Santa Caterina d’Alessandria, fondato probabilmente già nel XIII secolo e totalmente ristrutturato nel Cinquecento grazie alle nuove entrate finanziarie concesse da papa Giulio III del Monte. Ospitava le monache agostiniane, che si occuparono in particolare dell’educazione femminile. Di fianco, dove ora si trova uno spiazzo adibito a parcheggio, sorgeva il monastero di Santa Croce presso San Girolamo, così detto poiché le monache benedettine, dalla loro sede originaria presso la chiesa di Santa Croce, trovandosi fuori dalle mura, nel 1547 si trasferirono in quest’area, facendo propria la chiesa di San Girolamo appartenente alla compagnia omonima. In quest’area sorgeva in precedenza l’ospedale di San Marco Vecchio o delle Chiavi, i cui locali erano già stati riadattati per ospitare le terziarie francescane di San Marco.
Questo monastero confinava con la superstite chiesa della Santissima Trinità, edificata dalla compagnia omonima, la più antica e importante della città, assieme a un ospedale. Nel 1550, per ragioni militari, le clarisse di Santo Spirito, che avevano sede poco fuori la porta omonima, si dovettero inurbare, e vennero loro destinati i locali della compagnia, quelli che ospitano oggi il Liceo Classico, dando vita al monastero della Santissima Trinità. Accanto, in un’area totalmente manomessa nell’Ottocento per la creazione di via Guido Monaco, si trovava il monastero di San Marco Nuovo, così detto per distinguerlo da quello già citato, realizzato nel 1500 per le suore terziarie francescane, con la chiesa omonima.
Questi edifici sacri hanno visto una sorte comune di abbandono e distruzione negli ultimi due secoli: dapprima furono vittime delle soppressioni granducali e napoleoniche. In seguito, nel corso dell’Ottocento, solo pochi di questi edifici mantennero la loro funzione religiosa, mentre i più vennero destinati ad altri scopi. Infine, all’inizio del Novecento, l’area dell’ormai via Garibaldi e della via di Porta Buja divenne un vero e proprio quartiere militare della città, da sacro che era stato. Sorsero diverse caserme e comandi militari: alcuni edifici vennero riadattati, altri totalmente rasi al suolo; altri, poi, che si erano salvati da queste distruzioni non furono risparmiati dai bombardamenti dell’ultima guerra. Dunque, ben poco rimane purtroppo di quello che doveva essere un ameno e tranquillo angolo di storia aretina.
da “L’Alfiere” – n. IV – 2024, pagg. 10-11
Francesco Sartini