Piazza Grande in occasione della Giostra del Saracino di Arezzo si riempie di migliaia di persone, alcune presenti come pubblico, altri come figuranti, musici o sbandieratori ed altri ancora con ruoli istituzionali o tecnici. Accanto alla sfida tra quartieri e cavalieri, nella manifestazione ci sono alcuni momenti corali nei quali tutti questi presenti si uniscono in un’unica grande emozione.

Scrivendo questo articolo sulla rivista L’Alfiere degli Sbandieratori di Arezzo non posso esimermi dal citare l’esibizione dei musici e sbandieratori di questa Associazione come uno dei momenti corali della Giostra, capace di unire tutto il pubblico in un sempre graditissimo applauso.

Altro momento di unione tra tutti i partecipanti alla Giostra del Saracino è l’esibizione del Gruppo Musici “William Monci” che dal 1955 fa battere le mani a tempo a tutti i presenti. Il Gruppo Musici e i musici degli Sbandieratori eseguono poi anche l’Inno della Giostra del Saracino. Le note di Giuseppe Pietri vengono eseguite da tutti musici e le parole di Alberto Severi vengono cantate a memoria, in un unico rito collettivo di celebrazione, da tutti i presenti in Piazza Grande.

In un altro momento di unione di tutti i presenti, migliaia di persone, eccetto una, restano in un silenzio quasi sacro. La persona non ammutolita è ovviamente Francesco Chiericoni, l’Araldo della Giostra, il quale, con gli occhi di tutti i presenti puntati sulla Colonna Infame, incanta il proprio pubblico con la lettura della “disfida di Buratto”.

Indossando il costume da sbandieratore e osservando la piazza da un punto di vista interno ho sempre reputato incredibile come migliaia di persone con età, lavori, vite, ruoli e quartieri diversi trovino normalissimo fermarsi per 90 secondi per ascoltare una composizione poetica in tre ottave scritta nel XVII secolo. Ancora più incredibile è pensare che quelle parole facciano sorgere in tutti la medesima voglia di veder correre la Giostra e di voler vincere e portare a casa la Lancia d’Oro.

Prima di passare all’analisi del testo facciamo un brevissimo passo indietro.

La Giostra del Saracino trova le proprie regole nel “Regolamento Giostra Del Saracino” e nel “Regolamento Tecnico Della Giostra Del Saracino” ed è in questa seconda raccolta che all’art. 1 si legge che il regolamento è “ispirato ai Capitoli per la Giostra di Buratto codificati nell’anno 1677”.

Approfondendo ulteriormente tra le fonti della Giostra sappiamo che il testo della disfida che il Buratto lancia agli aretini è tratto dal volume “Feste celebrate in Arezzo l’anno MDCLXXVII (Dall’Accademia degli Oscuri, e suo Principe per la solennità di S. Niccolò loro protettore, inviate dall’accademico Discorde detto “Il sempre Innocente” all’illustrissimo Barone de’ Siri. già residente appresso la Maestà Cesarea, per la gran Repubblica, e suoi Re di Polonia, oggi per il Serenissimo Gran Duca di Toscana Depositario in Cortona)”. Tutto questo per dire che già nel 1678 veniva decantata la disfida di Buratto, solamente un anno dopo i Capitoli del 1677 che ispirano il Regolamento Tecnico della Giostra.

Il Buratto, grande protagonista della Disfida

Sempre nel medesimo Regolamento Tecnico troviamo all’art. 11, lettera b) la descrizione del ruolo dell’Araldo, al quale viene affidata la lettura della “disfida di Buratto”. In questo modo troviamo codificato il titolo del componimento poetico, anche se spesso viene chiamata “Disfida del Buratto” o anche solamente “Disfida”. Del componimento conosciamo bene il titolo ma ci è purtroppo sconosciuto l’autore che, con le grazie del tempo e della tradizione, ci immaginiamo essere stato un aretino purissimo.

La disfida è una dichiarazione di guerra che il Buratto Re delle Indie lancia alla città di Arezzo. Dopo la lettura del testo il Maestro di Campo ordina ai Quartieri di impugnare le rispettive balestre e di scagliare le frecce e, a seguire, comincia il torneamento che non vede i cavalieri della città sfidarsi direttamente tra loro, ma sfidare il Buratto cercando di ottenere il risultato migliore. Veniamo adesso al testo.

Non più d’usati onori aure cortesi

spingon, o Castro, il piede a’ tuoi contorni.

Sol quest’usbergo e rilucenti arnesi

premon le membra a vendicar gli scorni.

I magnanimi spirti a torto offesi,

lungi dal trionfar, odiano i giorni.

Con questo del flagel più grave pondo,

giuro atterrir, giuro atterrare il mondo”.

Con queste prime parole il Buratto minaccia la città dicendo che nell’imminente assedio (il piede a’ tuoi contorni) non saranno utilizzate le maniere rispettose o cortesi, ma armature (usbergo) e armi rilucenti (da notare la bella scelta lessicale) che spronano (premon) i corpi dei guerrieri (le membra) al voler vendicare i torti subiti (gli scorni, altra scelta lessicale adatta al contesto). Tali nobili spiriti dei guerrieri del Buratto (I magnanimi), ingiustamente offesi, soffrono il passare del tempo (odiano i giorni) perché sono in attesa del momento del trionfo (lungi dal trinfar). Il Buratto con questa importante motivazione (grave pondo) che lo spinge alla guerra (flagel) giura di spaventare (atterrir) e conquistare tutto il mondo (qui da intendersi come tutto il mondo con i valori diversi dai suoi).

Oggi provar t’è forza, empio arrogante,

che merte sol vers’i Tartarei chiostri,

un falso traditor volga le piante

e del suo sangue il suo terreno inostri”.

Il Re delle Indie ricorda che la forza degli aretini oggi è solo un vano tentativo (provar t’è forza) e apostrofa i nemici come empi (immorali, sacrilegi, contrari alla religione), arroganti e meritevoli solo dell’inferno (i Tartarei chiostri, una definizione poetica degli inferi). Il Buratto si augura che il nemico falso e traditore cada a terra (volga le piante) e con il proprio sangue colori di rosso il terreno (inostri, il verbo “inostrare” è legato alla parola latina “ostro” che significa porpora).

Ogni patto aborrisco e da qui avante

vesto la spoglia de’ più orrendi mostri.

Troppo infiamma il mio cuor giusta vendetta,

onde sol morte e gran ruine aspetta”.

Il Buratto specifica di non voler più fare alcun patto di pace d’ora in poi e, spinto dalla voglia di vendetta che infiamma il suo cuore (si noti la scelta poetica delle parole), da questo momento si arma come i terribili (orrendi) nemici (mostri), con il solo scopo di portare morte e rovina (ruina).

Oggi vedrai, s’al nuovo campo ascendi,

s’al tuo folle vantar sian l’opre uguali.

Prendi pur l’asta e fra tue strage apprendi

l’armi di un falso ardir quanto sian frali.

In fortissima contrapposizione con le parole dell’Inno del Saracino “Galoppa galoppa, o bel cavalier, / tu sei la speranza del nostro Quartier / col braccio robusto che piega il destin, / trionfa, o gagliardo, sul Re Saracin” il Buratto invita il cavaliere a scendere in piazza (campo), ma solamente per rendersi conto che il risultato (l’opre) non sarà quello follemente voluto (folle vantar) e che si renderà conto di quanto siano fragili (frali) le lance guidate da una falsa speranza (un falso ardir). Ironico come nella Giostra la fragilità della lancia e la sua rottura siano in realtà un motivo di raddoppio dei punti.

“Manda chi più t’aggrada e solo attendi,

da troppo irata man, piaghe mortali.

Non più parole, omai, vo’ vendicarmi:

al campo! Alla battaglia! All’armi! All’armi!”

Il Buratto invita l’aretino a far cavalcare qualunque cavaliere e aspettarsi il solo risultato della loro morte (piaghe mortali) per il tramite della mano mossa da ira del Re delle Indie. Con il suo verso più noto il Buratto pone fine alla poesia e ad altro discutere (non più parole) gettandosi nella battaglia in piazza (campo) per vendicarsi ed invita i propri armati a fare lo stesso con un grido più volte ripetuto (Alla battaglia! All’armi! All’Armi).

Su tale ultimo verso bisogna aggiungere un’ultima cosa. “Al campo! Alla battaglia! All’armi!”, pur rappresentando una minaccia volta agli aretini è di fatto diventato un verso caro a questi ultimi. Il motto è divenuto un comune modo di dire per darsi coraggio, tanto in Piazza per il saracino che in altre occasioni. Trovo commovente come il verso di una poesia di centinaia di anni fa possa tutt’oggi vivere nello spirito e nella tradizione aretina e venga tramandato di Giostra in Giostra e di aretino in aretino con passione e trasporto.

da “L’Alfiere” – n. II – 2024, pagg. 4-7

Lorenzo Diozzi