Perché specificare “ad Arezzo”? Perché una Santa Maria in Gradi, enorme e barocca, c’è anche a Viterbo, devastata purtroppo dalle bombe dell’ultima guerra. La nostra, altrettanto monumentale e impostata nella scansione spaziale secondo il tipico modello delle chiese della Controriforma, è l’ultimo grande progetto dell’architetto Bartolomeo Ammannati, quello del cortile di Palazzo Pitti, di Ponte Santa Trinita, della chiesa gesuitica di San Giovannino all’angolo tra Palazzo Medici-Riccardi per andare verso San Lorenzo sempre a Firenze.
Ecco, di quella “riuscitagli male”, sacrificata per le solite ragioni di risparmio che portavano a riutilizzare il già esistente piuttosto che a far cose nuove, riprese i disegni donando ai Camaldolesi aretini uno dei più solenni edifici sacri della nostra città. Poi morì in quel 1592.
L’attuale chiesa, con la grande facciata che si staglia verso il cielo dalla piazza lungo Piaggia di Murello, pare un cubone preso e piantato lì, veramente imponente, come a segnare l’importanza di quel luogo e monastero che per i monaci di San Romualdo fu il più importante centro nelle nostre zone dopo la stessa Camaldoli; c’era prima un’antichissima chiesa romanica, trasversale a quella odierna, sacrificata per il nuovo tempio e della quale resta solo l’oscura cripta accessibile scendendo una scaletta: edificare il nuovo sull’antico era, in quell’epoca, raccontare una continuità, come a dare fondamento al prestigio del luogo.
Sei cappelle laterali, tre per parte, che raccontano il gusto seicentesco dei Camaldolesi nei grandi altaroni due dei quali, con inganno, vennero fatti in legno poi dipinto come fosse pietra serena. Più leggeri, meno costosi. Eccezionale l’organo del maestro bolognese Antonio dal Corno, commissionato nel 1630, fatto arrivare da oltre Appennino e sistemato solo nel 1633 aspettando che a Bagno di Romagna si placasse la peste.
Nel frattempo Bernardino Santini, delicatissimo pittore figlio di una stirpe di artisti che in Arezzo dipinsero in ogni dove, aveva realizzato gli scomparti della balconata; per risposta, dalla parte opposta, nel 1654 veniva scoperta la cantoria barocca di Salvi Castellucci, con quell’enorme tela dove fra le nuvole suonano, cantano e volano gli angeli.
Cacciati anche i monaci da Napoleone, le pareti affrescate col ciclo dei dodici Apostoli erano state coperte di bianco e persane memoria fino agli anni ’80 del secolo scorso. Tutto pian piano torna alla luce, riemerge, pure tra alterne fortune. Molto dipende dagli uomini: le tele si anneriscono, l’organo dai mantici strappati tace ormai da quasi trent’anni. Ora che anche la parrocchia è stata trasferita a San Domenico perderà senso pure il tradizionale omaggio di Porta del Foro al “Sepolcro” nella notte del Giovedì Santo. D’altronde una chiesa ha senso se c’è popolo che prega.
Licciardello P., I camaldolesi ad Arezzo: mille anni di interazione in campo religioso, artistico, culturale, Società storica aretina, Industria Grafica Valdarnese, San Giovanni Valdarno (Ar) 2014
Pieri S., S. Maria in Gradi di Arezzo – Monastero-Chiesa-Parrocchia, Editrice Grafica l’Etruria, Cortona (Ar) 1994