Questo articolo vuole essere il primo di una serie di approfondimenti storici e culturali sulla città di Arezzo che saranno pubblicati sulla rivista L’Alfiere. Il primo tema che viene trattato affonda le sue premesse in elementi tutt’altro che aretini. Infatti, sarà qui analizzato il ruolo di Arezzo all’interno della Divina Commedia, opera letteraria del poeta fiorentino Dante Alighieri, composta nei primissimi anni del XIV secolo. Considerata, tanto a livello popolare quanto accademico, come un capolavoro della lingua italiana, questa opera contiene molti riferimenti alla storia dell’epoca, sia fiorentina che di tutta la Toscana. Tra i versi e le rime infatti si alternano descrizioni di luoghi e di personaggi che Dante stesso ha visitato e conosciuto, tra cui anche alcuni accenni ad Arezzo e a personalità aretine. La città di Arezzo non ospitò mai direttamente il poeta, il quale tuttavia visitò più volte la vallata del Casentino. I viaggi di Dante in Casentino avvennero nel 1298 quando impugnò personalmente le armi nella Battaglia di Campaldino, nella splendida cornice della città di Poppi e successivamente durante l’esilio, che dal 1302 lo ha obbligato a dover lasciare Firenze e ad errare in molte regioni italiane, come graditissimo ospite. Il Casentino viene infatti spesso citato nella Divina Commedia per i suoi elementi naturali come il torrente Archiano, il monte Falterona, il Pratomagno e La Verna descrivendo la pietra in cui San Francesco ricevette le stigmate.
I primi versi che andiamo direttamente ad analizzare sono contenuti nel Canto XIV del Purgatorio (vv. 46 – 48). Dante, in questa parte del suo viaggio incontra, nella cornice degli invidiosi, alcune anime, tra cui quella del nobile ravennate Guido del Duca. Il poeta si presenta alle anime dicendo di venire dalle valli bagnate dal fiume Arno e Guido, approfittando di questa citazione, inizia una terribile descrizione degli abitanti della Toscana, mediante paragoni con animali. I casentinesi sono paragonati a porci, gli aretini a botoli, i fiorentini a lupi e gli abitanti di Pisa a volpi. Si può apprezzare come la descrizione segua il percorso del fiume che nasce in Casentino, devia il suo percorso prima di incontrare Arezzo e prosegue poi fino al mare. La citazione che mostra questo cambio di direzione dell’Arno di fronte agli aretini è «Botoli trova poi, venendo giuso,/ringhiosi più che non chiede loro possa,/e da lor disdegnosa torce il muso». La scelta del botolo può essere spiegata andando a guardare un antico stemma aretino che portava la scritta «spesso il cinghiale è preso da un piccolo cane». Questo motto, che elogia la tenacia del cane nei versi, viene negativamente declinato nella descrizione degli aretini. Inoltre questa descrizione di botoli ringhiosi è stata più volte usata dagli aretini stessi per descriversi come un popolo di cittadini tenaci e duri.
In mezzo a lupi e volpi quindi, per quanto non elogiata, la città di Arezzo finisce per essere solo descritta come abitata da cittadini testardi e litigiosi. Generalmente meno noto è invece il Gruppo di versi che si occupano proprio di un aretino. Si tratta di Griffolino d’Arezzo che Dante incontra nel Canto XXIX dell’Inferno in mezzo ai falsari (vv. 109 – 120). Griffolino in persona dice al poeta di essere nato ad Arezzo e gli studiosi hanno ricostruito la sua storia scoprendo che era uno scienziato e studioso di chimica, magia ed alchimia che, divenuto familiare di un nobile senese, prometteva a questi straordinari ma truffaldini avvenimenti magici in cambio di denaro. Dopo essersi fatto pagare per insegnare al nobile a volare per l’aria ed aver ovviamente fallito, Griffolino finì al rogo con l’accusa di eresia, denunciato dal senese stesso.
Il più famoso riferimento alla città di Arezzo nell’opera è però rappresentato dai vv. 1 – 12 del Canto XXII dell’Inferno, che parlano della Giostra. Per evitare fantasiose ricostruzioni è però giusto analizzare bene le parole di Dante: «Io vidi già cavalier muover campo,/ e cominciare stormo e far lor mostra,/ e talvolta partir per loro scampo;/ corridor vidi per la terra vostra,/ o Aretini, e vidi gir gualdane,/ fedir torneamenti e correr giostra». All’inizio del Canto il poeta descrive lo spostamento di alcuni demoni paragonandolo al tumultuoso fracasso di un Gruppo di cavalieri in movimento e in combattimento. Dante continua poi affermando di conoscere bene queste attività di cavalieri, per aver visto nella terra degli aretini numerosi combattimenti e scorrerie di guerra, nonché pacifiche cavalcate di tornei e giostre.
Il poeta, nel descrivere i cavalieri in assetto da guerra nel territorio di Arezzo, fa un riferimento alla battaglia di Campaldino che lui stesso ha combattuto, mentre nel parlare dei tornei pacifici probabilmente si riferisce ad attività tipiche dei cavalieri dell’esercito medievale, che prima della guerra si allenavano in scontri e gare. La giostra di cui parla Dante non è quindi l’attuale Giostra del Saracino e Dante non è mai stato nelle tribune di Piazza Grande a sostenere uno dei quattro quartieri. Tuttavia il poeta ha personalmente visto i cavalieri aretini adoperarsi sia nella guerra che nei tornei, dimostrando come, se pure molto diversa, la Giostra sia una passione per i botoli ringhiosi di oggi come lo era per quelli di un tempo. In questi primi versi del XXII Canto il poeta afferma anche che queste attività di cavalieri erano sempre accompagnate da segnali dati da trombe e tamburi. Questa descrizione non risulta certo una novità per gli aretini, abituati alla presenza di tali strumenti nella Giostra, ma neppure per gli Sbandieratori che trovano proprio in questi strumenti il ritmo per le loro esibizioni.
Dante parla poi ancora di giostre di cavalieri aretini nel XIII Canto dell’Inferno (vv. 120 – 121) quando ricorda «l’imboscata del Toppo» uno dei tanti episodi delle battaglie tra Guelfi e Ghibellini. Presso Pieve al Toppo infatti i Ghibellini aretini, dopo aver respinto un assalto diretto alla loro città, prepararono un agguato ai Guelfi senesi, che furono sconfitti. Nell’episodio raccontato nell’inferno dantesco un’anima con pungente ironia rinfaccia ad un’altra di essere morta durante «le giostre del Toppo». La parola giostra viene ironicamente usata per descrivere la battaglia come un pacifico incontro di cavalieri, quando invece fu un importante scontro nel quale perse la vita anche un giovane senese chiamato Lano, che Dante incontra nell’inferno.
Il valore della Divina Commedia non è solo quello letterario, ma anche quello storico e la città di Arezzo, come qui ricordato, anche se con un ruolo non certamente centrale, ha l’onore di essere citata tra le maestose rime dell’opera.
da “L’Alfiere” – n. IV – 2017, pag. 2-3