Quando passeggiamo lungo Corso Italia e oltrepassiamo il semaforo di via Roma, sembra quasi di entrare in una zona diversa di Arezzo, più moderna e piuttosto lontana dal resto del centro storico. Dopo pochi metri la via si apre nella piazza di San Jacopo, sempre viva per i suoi tanti bar e negozi, che la rendono uno dei centri principali della vita cittadina. Anche per noi sbandieratori questo luogo è molto significativo: qui, infatti, ci esibiamo il 10 gennaio per celebrare il beato Gregorio.

Tuttavia, chiunque avesse percorso lo stesso tragitto anche soltanto pochi decenni fa, si sarebbe trovato in un luogo del tutto diverso, che apparirebbe irriconoscibile anche al più esperto degli aretini. Di quel glorioso passato oggi non rimane che qualche vecchia casa, restaurata e riadattata al nuovo contesto edilizio, oltre alla vecchia toponomastica: si hanno, infatti, vari nomi di santi (San Jacopo, San Giovanni Decollato e Madonna del Prato), di cui, però, non rimane che il ricordo.

Mappa dell’area in una rielaborazione dal catasto leopoldino

Consultando il catasto leopoldino di inizio Ottocento, ci si accorge subito di come la geografia di quest’area sia stata completamente stravolta in appena due secoli. L’attuale Corso Italia mantiene esattamente lo stesso tracciato di allora (come forse già dal tempo dei Romani), anche se nel tempo ha avuto diversi nomi: ancora nel catasto leopoldino si trova indicato come via del Corso, mentre prima ancora era noto come Borgo di Strada o Borgo Maestro (da cui prende il nome l’antico quartiere di Porta del Borgo o Burgi, oggi rinominato Santo Spirito). A partire dal medioevo, infatti, il termine borgo sta a indicare una strada completamente fiancheggiata sui due lati da edifici. Anche nel tratto finale di questa via, infatti, si può notare come ci siano sempre state abitazioni, tre cui anche notevoli palazzi di famiglie nobiliari. Al contrario, in questa zona della città, le vie laterali rispetto al Corso risultavano molto verdi, con pochi edifici: questa era la situazione della città ancora nell’Ottocento, quando al di sotto del fiume Castro (odierno tracciato di via Roma) la città murata era in gran parte occupata da orti, inframezzati da poche case. Nei catasti di XV e XVI secolo, invece, troviamo varie definizioni per il Corso, che per comodità veniva spezzettato in più tratti: il primo, entrando in città dalla porta meridionale, era detto da Santo Spirito a Santo Jacopo (cioè fino all’odierna piazza), mentre il successivo da Santo Jacopo a Santo Antonio (ovvero dalla piazza fino all’incrocio con via Garibaldi).

Fino al 1967 la dedicazione della piazza a San Jacopo sarebbe stata del tutto evidente: purtroppo, però, in quell’anno fu decisa una delle più sciagurate distruzioni del secolo passato, l’abbattimento della chiesa che a quel luogo dava il nome. La chiesa di San Jacopo era un edificio antichissimo, attestato almeno nel XIII sotto la guida dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Dopo il periodo delle Crociate, infatti, gli ordini cavallereschi, come templari e gerosolimitani, portano alla fondazione di diverse chiese anche in Toscana (come a Firenze e San Gimignano) dedicate a santi guerrieri come Jacopo. Il controllo della chiesa, diventata poi parrocchia, passò col tempo all’Ordine di Rodi e all’Ordine di Malta.

La “Fontina”, in angolo tra Corso Italia e via Santa Croce (anni ’20)

Questa piccola chiesa dominava allora una altrettanto ristretta piazzetta, nient’altro che uno slargo in corrispondenza dell’incrocio di cinque strade: a nord e sud il Corso, ad est la via dell’Anfiteatro, e ad ovest due vie che la congiungono con via Madonna del Prato, via San Giovanni Decollato, ancora presente, e la scomparsa via di Santa Croce, detta popolarmente via Crocina. Ben diversi, dunque, dovevano essere l’aspetto e la vita di questo angolo di Arezzo: molto più raccolto e popolare, non ampio e moderno come oggi.

Il lato meridionale della piazza era completamente occupato da palazzo Turchini, incuneato tra il Corso e via di Santa Croce: in questo angolo si trovava una caratteristica fontanella. Nell’angolo tra il Corso e via dell’Anfiteatro sorgeva il cinquecentesco palazzo Vivarelli, che fu acquistato dal Monte dei Paschi di Siena per la sua sede aretina. Di fronte alla chiesa, invece, all’angolo tra via San Giovanni Decollato e via Crocina (dove ora è Zara), si trovava un bar molto frequentato, di proprietà della famiglia Scortecci, il centro sociale della piazza fino agli anni ’60.

La via di San Giovanni Decollato è una delle poche sopravvissute, con qualche casa più antica: non si è conservato, tuttavia, l’edificio che le dà il nome, già scomparso nell’Ottocento. Si vede, però, in una carta del Settecento che all’angolo settentrionale tra questa via e Madonna del Prato esistevano la chiesetta e la sede della Compagnia di San Giovanni Decollato, che fin dal Trecento si occupava di assistere i condannati a morte nel loro ultimo cammino. Fino al XVI secolo, infatti, il luogo delle esecuzioni capitali ad Arezzo era proprio il Prato del Comune, un’area campestre situata al di là di via Madonna del Prato (così si spiega anche l’origine dell’appellativo), corrispondente all’odierna via e piazza Guido Monaco. Anche via di Santa Croce prendeva il nome dalla chiesa e della Compagnia omonime, di origine trecentesca.

Via del Cacciatore (vista da via Madonna del Prato), nei primi anni ’50, poco prima della distruzione per far spazio a Piazza della Repubblica.

L’area di San Jacopo fu gravemente colpita dai bombardamenti dell’ultima guerra: palazzo Turchini fu particolarmente danneggiato, cosicché nel 1948 si decise il suo abbattimento e l’apertura di una nuova via, dedicata a Giuseppe Verdi, che sostituisse la storica via Crocina. Fu proprio durante questi scavi che venne alla luce una delle più importanti testimonianze archeologiche della città: furono ritrovati, infatti, molti elementi decorativi in terracotta databili al V secolo, che dovevano provenire da un tempio etrusco. Purtroppo la fretta di costruire non lasciò spazio a un sito archeologico; i ritrovamenti in terracotta, invece, si possono ancora ammirare nel vicino Museo Archeologico.  Nonostante la guerra, la chiesa e palazzo Vivarelli rimasero in buone condizioni, ma non sopravvissero alle devastazioni edilizie degli anni del boom economico: negli anni ’60, infatti, si decise di abbattere brutalmente queste testimonianze di storia aretina, sopravvissute per secoli, in favore delle nuove mode architettoniche. Anche in questo caso la distruzione avrebbe permesso di conoscere lo strato più antico dell’antica Arezzo: sotto palazzo Vivarelli furono rinvenuti dei bacini per la lavorazione dell’argilla di età romana. Ma anche in questo caso, salvati i pochi reperti, si scelse di ricoprire tutto in fretta per completare il nuovo palazzo del Monte dei Paschi. Lo spazio della chiesetta di San Jacopo, simbolo della piazza, invece, fu sfruttato dalla compagnia Upim per edificare un enorme centro commerciale.

Spero che questo ricordo di un tempo che non c’è più inviti tutti noi a riflettere sull’importanza del nostro patrimonio artistico, troppo spesso dimenticato in vista dell’utile e del guadagno.

da “L’Alfiere” – n. III – 2024, pagg. 10-11

Francesco Sartini