Ad Arezzo, in Via Trasimeno n. 71, si trova lo studio d’arte Crocevia che con un grande cartello posto all’ingresso invita tutti a bussare ed entrare per conoscere all’interno l’artista Diego Nicchi, in arte Sanguedalnaso. Il luogo si riconosce e, una volta entrati, si distingue una scrivania piena di attrezzi creativi appoggiata ad una parete macchiata di schizzi di colore sfuggiti nel dipingere. L’artista è fiero di questa parete al punto tale da confessarmi: “forse una delle cose più belle fatte qui dentro, ma sono in affitto non posso tagliare il muro”. Nel corso dell’intervista Diego mi ha mostrato le proprie le opere, abbassando la voce quando parlava delle sue preferite e ricollegando ad ogni opera un preciso sentimento che ha trovato sulle tele modo di manifestarsi.
Quanto dura la realizzazione di un’opera?
La gettata iniziale è molto spontanea, non calibrata, parte da un tratto o da una secchiata di colore. Vedo la tela bianca e mi chiedo “parto con una matita, con una sagoma?”. Dipende da come mi sento io, se sono più controllato, meno controllato, se ho voglia di sfogarmi. Questo quadro l’ho appeso qui da due settimane e sono 4 o 5 giorni che non aggiungo altro. Non mi obbligo mai a andare a fare qualcosa, non lo pianifico.
Paura della tela bianca?
Più che paura della tela bianca mi chiedo se un qualcosa io non lo abbia già fatto. Mi chiedo “quella volta nella quale sono partito in questo modo il quadro è venuto bene o male? Voglio fare lo stesso quadro?”. Delle volte le rimbianco anche”. Poco dopo mi ha spiegato: “Non sono mai stato un grande amante della precisione, sono un po’ strano. Sono per il casino controllato, guarda il mio tavolo. Delle volte quando esagero mi bacchetto un po’ le mani, oppure vedo un quadro troppo lineare e vedo che non c’è fantasia.
Conosco Diego Nicchi da prima dei suoi quadri e una parte della scena musicale aretina e molti degli eventi organizzati in città portano anche la sua firma. L’artista mi ha raccontato di essersi diplomato al Liceo Artistico Piero della Francesca e ne ho approfittato per chiedere da dove arrivi la sua necessità di dipingere. Ho affrontato anche l’arte più figurativa, prima riproducendo i fumetti e i cartoni animati e poi con l’Istituto d’Arte. Mi sono allontanato da questo tipo di arte perché non riesco ad essere troppo classicista. A scuola la geometria e la matematica per me erano dei nemici. Ho sempre preferito più le linee libere e gli sbalzi di testa. Mi piace quell’arte dove c’è libertà e non un senso di costrizione, magari io ci vedo qualcosa e gli altri non ci vedono nulla perché per me è una tela vissuta, quello schizzo si ferma lì in quel momento e non è replicabile. Il non replicabile mi fa impazzire, un quadro di Pollock è difficilmente replicabile, mancherebbe di una propria danza. Mi affascina che quella goccia sia caduta lì in quel giorno in quella precisa ora e nessuno potrà mai farla cadere.
Durante il lockdown ho steso un telo in un angolo della cucina. Era come se colorassi da vent’anni senza smettere mai. È stato uno stare bene, è stato terapeutico in un momento difficile, è stata una sorta di psicanalisi. Usavo il nero quando vedevo nero, il bianco per significare una purezza. Questa cosa della pittura mi ha fatto togliere tutti gli appellativi che mi portavo dietro (musicista, direttore artistico, organizzatore).
Torniamo a parlare delle opere
Nei quadri si leggono degli “help”, forse richieste di aiuto rimaste inascoltate; “home way” forse perché lì volevo ritornare; “fake” perché tante volte mi sono sentito dire che quello che faccio è finto; “threesome” perché mi diverte confondere le idee o perché siamo in tre tra Diego, Sanguedalnaso e chi guarda il quadro. Cerco la provocazione. È anche un gioco per dimostrare che non c’è una spiegazione a tutto (che poi è la vita). Per me è anche il non prendersi seriamente. Io non posso spiegarti. “La parola “life” ritorna un sacco di volte, come torna un sacco di volte la parola “aiuto” e la parola “no”. Questi sono tutti i no che mi sono preso in faccia. La scritta “free” perché molte volte l’arte si fa gratis. Poi c’è questa mucca felice “happy cow” non lo so perché l’ho scritto. Alcune cose non le posso spiegare nemmeno a me stesso. Faccio il vandalo, ma non lo sono nella vita vera.
Qual è il significato di aprire uno studio di arte a Saione?
Questi dello studio sono un po’ i muri di Saione, quello che faccio io è lo scarabocchio che ho visto nel sottopassaggio di Via Arno. Saione per me è sempre stata sentirsi a New York ad Arezzo, il quartiere multietnico nel quale mi sono sentito sempre molto protetto. Devo stare tra queste vie, conosco il barista, conosco il parrucchiere, mi piace conoscere un po’ tutti. C’è una componente del quartiere assolutamente sociale. Per me è già sociale aver aperto una vetrina con la luce la notte qua dentro. Forse avrei più paura ad essere la notte in altri luoghi. Saione è casa mia e lavoro a Saione al New Factory, la mia vita si concentra qui. Mi piace la Saione silenziosa nelle notti di inverno, mi piace la Saione più rumorosa in estate con i bambini senza divisione che giocano in Piazza Zucchi. Questa cosa non si vede altrove. Essere qui è proprio un obbligo”. Da qui il nome dello studio? “Crocevia è un gioco di parole sulla posizione in via Trasimeno, la strada fa una sorta di croce con Via Montegrappa e si sposano le strade che vanno in centro, che vanno in Zona Giotto, Saione, il Pionta. In mezzo a questo incrocio ci sono io, si leggeva bene, suonava bene.
A proposito di nomi, come firmi i quadri?
Il mio pseudonimo da fotografo è Sanguedalnaso”. Soffrendo di capillari fragili il tenere la macchina fotografica premuta sul naso mi faceva perdere il sangue e la mia amica Gea mi ha suggerito di chiamarmi così. La fotografia rientra nel Crocevia, adoro la street, non la modella perfetta e pagata ma la vecchietta al mercato che sceglie le arance, i momenti di vita. Il sangue è una cosa molto reale e mi piaceva come suonava. Io mi firmerei come Diego Nicchi, nickname Sangue. Però per Crocevia ho preferito dare un nome al posto.
Una tua opinione sullo stato attuale della scena artistica aretina?
Si va un po’ a periodi. Ricordo per la musica anni fa una città collaborativa, anche tra band ci si andava a sentire. Oggi ci sono meno luoghi e meno possibilità di socializzare con altri musicisti.
Però ci sono tanti ragazzi che tengono viva la città in maniera ottima. Un posto va finanziato, oggi il soldo serve, i posti non si tengono aperti con i sogni. Mi manca la collettività nell’arte e in generale, ma tengo sempre aperta la mia porta. Al New Factory mettiamo a disposizione gli spazi per gli emergenti che vogliano mettersi in gioco. Alcuni hanno fatto solo quella come esperienza ma erano contenti che per quel giorno loro erano quelli che avevano esposto.
Chi sono i tuoi maestri?
La prima volta che sono entrato in contatto con questa arte stavo sfogliando un libro di scuola e ho conosciuto Piero Manzoni, artista che ha fatto rappresentazioni umane, quasi esibizioni. Mi ci sono riconosciuto perché si è lamentato che non sapeva dipingere o disegnare (anche io a volte sono un lamentone), ma ha trovato con fatica il proprio posto nel mondo. Faceva parte di una élite milanese nella quale è entrato anche a fatica. Era un artista in netto contrasto con quello che è stato Basquiat (altro mio artista preferito). Erano tutti e due artisti abbastanza dannati, ma con due realtà sociali molto differenti. Manzoni con la Milano da bere e Basquiat con le strade di New York (e qui si torna a Saione, la mia New York). Sono legato molto a Basquiat, mi ritorna questa roba dei denti, delle bocche spalancate, un’arte primitiva. Mi piace che mischiasse l’arte e la strada. Una storia tragica di un ragazzo figlio della strada. Ha utilizzato molto male il successo, una rock star dell’arte. Un abuso di fama, un eccesso, una persona che passa dalla totale povertà ad essere riempito di soldi. Degli artisti che mi piacciono studio prima la storia che le opere, mi piace vedere cosa hanno vissuto. Studio le cose che mi garbano ma bisogna anche molto studiare le cose che non ti piacciono, senza mitizzare. Altro artista è stato Fontana, mi piacciono questi coraggiosi che hanno sfidato lo spazio-tempo dell’arte, addirittura sfondando una tela. Quello mi ha scioccato. Più le persone mi dicevano che non era arte e più mi piaceva. Ha veramente tagliato l’arte.
Un segno come la coroncina alla Basquiat ancora non è nato in questo studio?
Ho tantissima strada da fare, mi sto molto divertendo sperimentando, ci sono cose che mi piacciono molto molto di più, altre meno, ritorno delle volte sugli errori, a volte cerco di scapparne, ancora la coroncina alla Basquiat deve uscire. Non sono pienamente soddisfatto, a febbraio festeggio un anno che questo posto esiste. Il tempo mi è passato molto veloce ma c’è tempo per migliorare.
da “L’Alfiere” – n. I – 2024, pagg. 14-15
Lorenzo Diozzi