Sembrava impossibile, dopo tanti preparativi e ancor più incertezze, timori e dubbi sul buon esito della trasferta, eravamo imbarcati sul volo Aerolineas Argentina che ci avrebbe portato in Argentina, a rappresentare l’Italia per i campionati mondiali di calcio: una di quelle “missioni” dove, con orgoglio, posso dire “io c’ero”. E questo solo perché dieci anni prima ero riuscito ad entrare nel Gruppo Sbandieratori di Arezzo, altrimenti sarei stato solo uno dei tanti telespettatori anonimi e non avrei avuto questa straordinaria opportunità. Un viaggio in aereo sopra l’Atlantico per il quale la curiosità ha contribuito a smorzare le preoccupazioni, almeno in parte perché ad ogni sussulto dovuto a qualche turbolenza tornava alla mente che sotto di noi c’era solo un’immensa distesa di acqua. Non che se ci fosse stata la terra la situazione sarebbe stata migliore, ma con l’acqua…. Comunque eravamo comodamente seduti in splendide poltrone, ci avevano fornito ciabattine di stoffa, copertina e strani jack formati da tubicini vuoti che, inseriti su innesti della poltrona, servivano per ascoltare la musica o per seguire i film che venivano proiettati, la sera, nello schermo centrale di ogni settore dell’aereo. Ogni cosa, allora, appariva straordinaria. Fatto sta che dopo una sosta tecnica, mi pare, a Rio de Janeiro siamo finalmente sbarcati a Buenos Aires e da lì, con tre o quattro curve al massimo, siamo giunti, dopo circa 400 chilometri di autobus, a Mar del Plata. La pampa è veramente sconfinata, non si vedevano montagne o colline ma solo mandrie di mucche o cavalli che pascolavano allo stato brado tra interminabili distese di prati verdi, solcati da un nastro di asfalto, dritto, che svaniva all’orizzonte. Durante il viaggio ci furono impartite alcune raccomandazioni, entravamo ospiti in un paese dove al potere, dal 1976, c’era una dittatura militare; non si potevano escludere tentativi di strumentalizzazione o di provocazione che avrebbero potuto avere conseguenze spiacevoli, quindi massima discrezione e poca confidenza con gli estranei. In verità, fortunatamente, non abbiamo avuto problemi e tutto sembrava apparentemente tranquillo intorno a noi.
Ci potevamo muovere liberamente ma molto del tempo lo passavamo in costume, passando da un’esibizione all’altra, da un ricevimento ad una visita a strutture create da connazionali immigrati nel tempo, in cerca di lavoro. L’accoglienza e l’affetto sono sempre stati vivacemente rappresentati, indubbiamente i costumi, le musiche e le esibizioni inorgoglivamo i nostri concittadini che ci vedevano come un’eccellenza del loro paese da mostrare al resto della comunità. Mar del Plata era già allora una grande città, nel centro le strade erano larghe ma invase da vecchie macchine, stile americano: quegl’immensi cassettoni con i grandi paraurti cromati. La stranezza era che fossero posteggiate in file ininterrotte lungo i marciapiedi, senza lasciare spazi tra l’una e l’altra. Feci notare la particolarità alla nostra guida che con estrema naturalezza, quasi fosse un comportamento scontato, mi disse che tutte le auto venivano lasciate sfrenate in modo che, ingranando la marcia avanti e poi la retromarcia per spingere l’intera colonna, si creava lo spazio necessario per poter uscire, ottimizzando il numero dei posti di sosta. Incredulo volli verificare la strampalata notizia ma effettivamente le cose stavano proprio come mi erano state raccontate. Lì ho visto anche i primi dissuasori di velocità: le strade, agli incroci, erano “armate” con delle file di, neppure troppo piccole, piramidi di cemento che costringevano tutti gli automobilisti ad una stretta gimcana tra queste protuberanze, pena la distruzione del mezzo. La squadra di calcio Italiana, allenata da Bearzot, era partita per l’esperienza mondiale nella convinzione generale di non riuscire a passare il turno, visto che eravamo capitati in un girone tremendo che comprendeva, oltre alla Francia e l’Ungheria, anche l’Argentina. Sarà stato anche merito degli Sbandieratori di Arezzo, che con gli squilli delle loro chiarine suonavano la carica. ma la nostra nazionale sfoderò un gran calcio vincendo le prime due partite per poi doversi recare allo stadio Monumental di Buenos Aires, per incontrare i padroni di casa. Fatto sta che anche la nostra permanenza in Argentina era stata legata alla scontata eliminazione della nostra squadra e quindi, con nostro grande rammarico e nonostante i tentativi di trovare qualche escamotage per poter proseguire l’esperienza mondiale, dovemmo rassegnarci a rientrare e lasciare “orfana” del nostro chiassoso incitamento, la Nazionale. Nel corso dei nostri spostamenti in città mi capitava di vedere esposti, nelle vetrine delle banche, dei tabelloni luminosi che elencavano prodotti finanziari accompagnati da valori apparentemente bislacchi: 120% – 135% – 180%. Solo dopo qualche giorno capì che quelli erano i tassi di interesse che giornalmente venivano aggiornati al rialzo, una svalutazione galoppante stava, già allora, strangolando il paese. (Problema ancora irrisolto, ma questo è un altro discorso). Tanto per dare un termine di paragone in quegli anni l’Italia, anch’essa non particolarmente brillante, scontava un’inflazione a due cifre che tuttavia oscillava da un 10% a un 14%. La sera prima di partire per Buenos Aires, su richiesta del Comitato Azzurro, fummo accompagnati nei quartieri del porto di Mar del Plata, popolati prevalentemente da immigrati italiani e principalmente siciliani, quasi tutti pescatori. L’esperienza mi è rimasta sempre impressa nella mente e nell’anima: fummo accolti con un entusiasmo incontenibile. La nostra esibizione terminò che era quasi buio, eravamo circondati da una folla festante che appena effettuato l’ultimo lancio di bandiere si strinse intorno al Gruppo: abbracci, strette di mani, complimenti, richieste di informazioni sull’Italia, lacrime di gioia e commozione. Queste alcune delle frasi che venivano rivolte ai ragazzi più piccoli, sicuramente nati in Argentina, che ancora, ogni tanto mi tornano alla mente: “… Guardali, questi sono italiani figlio mio, guardali, mandagli un bacio…” ; “ … Sono più di 10 anni che non torno in Italia, com’è, raccontalo a questo mio figlio che non l’ha mai vista, ma fra qualche anno forse ci andiamo, vero?:…; e infinite altre commoventi situazioni non ultima quella in cui mi fu messo in braccio un bambino di soli pochi mesi mentre i genitori mi dicevano “…tienilo un po’ in braccio, bacialo che sei italiano, parlagli, fagli sentire un po’ il calore della nostra terra…”. Confesso di essermi commosso e ancora oggi non mi è semplice ripensare a quei momenti e a quella gente senza provare turbamento. È stato doloroso lasciare quelle persone per rientrare in albergo ma dovevamo preparare i bagagli che la mattina ci spostavamo a Buenos Aires.
Straordinario fu il bagno di folla in Avenida 9 de Julio, nella capitale Argentina, dove migliaia di persone erano accorse per vedere le nostre esibizioni e, anche in questo caso, appena terminato lo spettacolo ci ritrovammo circondati da connazionali festanti ma non solo, anche gli argentini dimostravano grande affetto e simpatia nei nostri confronti. Era il 10 giugno e la sera ci aspettava l’impegno più importante, l’esibizione dentro lo stadio del River Plate, detto El Monumental, prima della partita Argentina -Italia. Inutile dire che l’impianto era stracolmo di gente, gli spalti erano talmente alti e ripidi che gli spettatori sembravano appesi in cielo, li sentivi talmente vicini, sopra la testa che quasi avevi soggezione a lanciare in aria la bandiera. Il frastuono infernale copriva il rullo ed i preavvisi del tamburo tanto che nella sfilata dovevamo guardarci attentamente per poter mantenere i tempi. Eravamo investiti da una grande responsabilità, unico gruppo in campo a rappresentare l’Italia, il suo folclore, la sua storia e la sua nazionale: l’emozione veniva cancellata dall’adrenalina che ci rendeva attori assoluti in quel magnifico contesto. Terminata l’esibizione ci avevano riservato i posti in tribuna che avevamo vivacizzato con i colori dei nostri costumi e delle nostre bandiere ma ancor più con i nostri tamburi e le nostre chiarine che sottolineavano le azioni e tutte le giocate dei nostri calciatori. Duellavamo, musicalmente, con tutto il resto dello stadio perché la tifoseria italiana era veramente poca: ai nostri squilli di tromba facevano eco boati di urla e fischi ma tutto procedeva con grande sportività, d’altra parte entrambe le squadre erano già qualificate per il turno successivo e ci giocavamo solo il primato del girone, non che non fosse importante ma entrambe le formazioni avevano già superato il primo ostacolo. Quando però arrivò il goal di Bettega il gelo intorno a noi spense anche le nostre chiarine: il buon senso ci consigliò di essere contenti con molta discrezione e compostezza, quasi solidarizzando con la delusione che si leggeva nei volti dei tifosi argentini. Terminata la partita, purtroppo realizzammo che era terminata anche la nostra esperienza e che il giorno seguente un aereo ci avrebbe riportato a casa. Per la cronaca il giorno seguente l’aereo non partì, costringendoci a pernottare nell’hotel dell’aeroporto. Furono annunciate varie cause ma la nostra convinzione restò quella che la qualificazione della nostra squadra aveva prolungato la permanenza di molti italiani e quel giorno il volo sarebbe risultato quasi vuoto. Chissà se il dubbio aveva dei fondamenti di verità.
Si era quindi conclusa un’altra straordinaria trasferta che solo chi ha avuto la fortuna e la costanza di appartenere al Gruppo Sbandieratori di Arezzo ha potuto vivere da attore e non da semplice spettatore.
da “L’Alfiere” – n. II – 2021, pagg. 14-15