Un simbolo della città
Qual è il simbolo della città di Arezzo? La domanda possiede numerose risposte, tutte valide e giustificate da vari e fondati motivi. Tuttavia, se volessimo identificare un simbolo capace di far incuriosire adulti e bambini e capace di affascinare attraverso la propria storia e leggenda la risposta da preferire non potrebbe che essere la Chimera. Tale statua viene a volte dimenticata, forse perché ideologicamente legata ad uno solamente dei quartieri o forse perché l’originale del manufatto non è custodito ad Arezzo. Altre volte invece viene molto celebrata, si pensi ad esempio alle numerose attività ed associazioni che portano il nome “Chimera” ed a tutta l’identità che il quartiere di San Lorentino ripone su tale simbolo, sfoggiandolo nei propri stemmi, fazzoletti, motti e cori. Senza dubbio è uno degli elementi etruschi propri della città di Arezzo con maggiore fascino. Non di rado capita infatti di trovare presso Porta San Lorentino i turisti incantanti a guardare la copia della scultura ed attratti dall’animale mitologico al punto tale da toccarne le teste o le ferite, dopo essersi accertati non essere visti da nessuno.
La creatura e la leggenda
L’origine della creatura è legata alla storia di Bellerofonte che tra le proprie gesta eroiche vanta l’uccisione della Chimera. Nella leggenda l’eroe affrontò la Chimera sostenuto dal cavallo alato Pegaso per soddisfare gli ordini del Re della Licia Iobate, che sperava di provocare la morte di Bellerofonte affidandogli una missione irrealizzabile e letale. Durante la battaglia la Chimera apparve all’eroe con la propria figura spaventosa, emettendo anche fuoco dalle fauci, ma Bellerofonte, dopo aver fallito alcuni tentativi di attacco dalla distanza, riuscì a conficcare la propria lancia nella bocca leonina della Chimera. Le fauci di fuoco della creatura, sciogliendo il metallo della lancia si chiusero così per sempre, soffocate dal liquido fatale. La leggenda viene anche così riportata nel Libro VI dell’Iliade: “E quando ebbe avuto il funesto segno del genero, / per prima cosa gli ordinò di uccidere la Chimera / indomabile, era di stirpe divina e non umana, / davanti era leone, dietro serpente e in mezzo capra, / e spirava la terribile forza del fuoco ardente. / Bellerofonte la uccise, fidando nei segni divini.” Il mito di origine medio orientale e greca incontra nella statua la maestria tecnica degli etruschi, con un risultato stupefacente che unisce gli elementi dinamici della figura alla lavorazione di alta precisione artigianale, visibili in particolare nella criniera, nella bocca e nelle ferite dell’animale.
La scultura e la storia
“La Chimera di Arezzo”, è doveroso ricordarne il nome completo, è un gruppo scultoreo di bronzo che rappresenta un monstrum teso in una posizione aggressiva e potente con gli artigli estroflessi. L’opera è stata realizzata attraverso la tecnica della fusione cava del bronzo che ricorda molto lo scontro fiammeggiante tra la bestia ed il metallo della lancia di Bellerofonte. Il corpo dell’animale possiede una la testa di leone, una testa di capra sul dorso ed un serpente come coda. La realizzazione del bronzo viene datata in un periodo che va dalla fine del V all’inizio del IV secolo a. C. ma la sua storia è legata anche ad avvenimenti successivi. Conosciamo la data precisa del 15 novembre 1553, giorno nel quale durante i lavori di costruzione delle mura medicee nel luogo dove oggi sorge la copia della statua, la Chimera riemerse vedendo nuovamente la luce, come se volesse continuare la propria battaglia contro Bellerofonte. Inizialmente fu rinvenuta insieme ad altri manufatti priva della coda e scambiata per un semplice leone, ma successivamente su ricerca di Giorgio Vasari, fu ritrovato anche il serpente, seppur in frantumi. L’essere mitologico fu quindi assemblato e restaurato nella città di Firenze, tornando alla sua spaventosa forma originale ma restando da allora lontano dal luogo della scoperta, reclamata dal granduca di Toscana Cosimo I de’ Medici. Nell’ottica medicea infatti la storia di Bellerofonte era assimilata a quella della città di Firenze che è riuscita a sconfiggere le città etrusche come Arezzo.
Il completo restauro della coda, datato nel successivo 1785, viene oggi considerato un errore, in quanto il serpente dovrebbe puntare minacciosamente verso il nemico e non attaccare la testa di capra, per quanto così predisposta la statua guadagni di armonia e solidità. Alcune ipotesi vogliono che la Chimera appartenesse ad un complesso scultoreo più ampio con la presenza anche dell’eroe Bellerofonte, altre ipotesi invece ritengono che si tratti di una opera unica realizzata come offerta votiva. Questa ultima formulazione trova un elemento di conferma nella iscrizione “TINSCVIL” o “TINS’VIL”, presente su una delle zampe dell’animale, che la identificherebbe come una donazione alla divinità etrusca Tin. È dunque probabile che il manufatto un tempo arricchisse insieme ai tanti altri reperti recuperati un santuario situato nella zona di San Lorentino.
La copia presente all’interno di Porta San Lorentino è stata posizionata il 15 maggio 1999, ad eterna memoria dell’importantissimo ritrovamento, mentre altre copie sono custodite nell’ingresso del palazzo comunale e sulle fontane ai lati di Piazza della Repubblica.
Un’identità da riscoprire
Quando nel dibattito giornalistico emergono notizie relative a restituzioni o prestiti di opere di arte seguono sempre anche amari commenti sulla Chimera custodita fuori città presso il Museo archeologico nazionale di Firenze. Ci sono anche state strutturate e partecipate campagne volte a riottenere il manufatto ed a valorizzare la sua città e il suo luogo di ritrovamento. Nel 1985, durante le celebrazioni dell’”anno degli etruschi” la Chimera fece anche ritorno per un breve periodo tra le mura aretine, senza però fermarsi definitivamente. Pur completamente condivisibili tali iniziative lasciano però lo spazio per un commento. Non è il bronzo a fare l’identità, non è un piedistallo di pietra ed una teca di vetro illuminata a spiegare il significato mitologico e storico della Chimera come simbolo di una città. La promozione della cultura, l’approfondimento storico e, in generale, la curiosità di voler capire e ricordare la città di Arezzo non devono essere attività da portare avanti solo possedendo la Chimera originale ma nonostante l’assenza dell’animale dal suo logo autoctono.
da “L’Alfiere” – n. III – 2020, pagg. 12-13