Non sempre gli Sbandieratori di Arezzo vengono chiamati ad esibirsi per l’eccezionalità del loro maneggiar le insegne ma può capitare che la richiesta parta dall’interesse nei confronti del settore musicale del gruppo. Così è stato almeno in due occasioni: l’invito e la partecipazione al Seoul Drum Festival, importante avvenimento percussionistico di rilevanza mondiale che si tiene annualmente in Corea del Sud. La nostra partecipazione, col gruppo tamburi al completo ed una rappresentanza contenuta di sbandieratori, ha riguardato le edizioni 2000 e 2006. È comprensibile che con un focus principale nella musica e nelle percussioni in particolare, le nostre preoccupazioni si siano concentrate sulla costruzione di performances con il tamburo al centro della scena e la qualità delle nostre esibizioni (su palchi e sfilate in parate cittadine) è stata garantita dalla direzione tecnica di Ivan Luttini, a lungo riferimento di questo settore degli sbandieratori. Ivan è stato colui che negli anni ha insegnato la tecnica del tamburo a decine di nuove leve, curandone la crescita con competenza ineccepibile, oltre che con gusto musicale particolarmente elevato.
Non nuovi all’estremo oriente, ci siamo calati con entusiasmo in una realtà dal passato millenario, tanto poco conosciuta al visitatore odierno se non per alcuni ovvi motivi storici, a partire dal recente passato novecentesco della guerra fra le due Coree. Chi può spingersi verso un passato più remoto avrà cognizione del ruolo storico di quell’antico e potente impero coreano, composto da svariate dinastie e numerose ripartizioni territoriali di quella penisola che fu in grado di resistere per decenni ai tentativi di assoggettamento da parte mongola. Fu solamente nel XIII secolo, con Kublai Khan (nipote del celebre Gengis), che la dinastia “Goryeo” dovette accettare l’asservimento alla potenza militare mongola e alla superiorità schiacciante della sua cavalleria d’assalto. Detto per inciso, è proprio da questa dinastia che deriva il nome di Corea. La Seoul degli anni duemila è una immensa metropoli di più di dieci milioni di abitanti all’interno della quale convivono le elevatezze tecnologiche vetro/acciaio dei grattacieli della Samsung con le case di legno, derivazione di un orientalismo antico e raffinato. Non si stupisca quindi il viaggiatore odierno nel non trovare numerosi reperti architettonici del passato remoto, vista la deperibilità di strutture quasi completamente realizzate in legno dipinto. Nel contesto urbano si confrontano pertanto il fragile passato di una cultura largamente permeata dal buddismo e un approccio occidentale molto accentuato, tipico di quelle realtà di confine fra socialismo e capitalismo. La penisola di Corea resta infatti un angolo di mondo in parte cristallizzato nell’atmosfera di una guerra fredda che non sembra essersi conclusa. Uno dei paradossi di questa condizione riguarda proprio la percezione che noi occidentali abbiamo della Corea “democratica”: l’esistenza della Corea del Nord, con la sua opprimente dittatura personalistica ormai fuori dal tempo, impedisce qualunque riflessione sulle qualità della democrazia della Corea del Sud. In pochi ricordano l’esistenza di una recente dittatura in questo paese, così salda e capillare da condizionare ancora oggi il potere politico ed economico locale. Solo di sfuggita leggiamo infatti del vasto sistema di corruzione che lega oggi i vertici del governo di Seoul con i principali gruppi economico-finanziari della nazione. Ma a questo punto entrano in gioco fattori complessi di appartenenza e visione del mondo, a dimostrazione che sul piano intellettuale e delle scelte personali noi uomini dell’occidente siamo ancora troppo condizionati dal fronteggiamento fra i blocchi e poco inclini a ragionare su quanto ancora faccia comodo alla politica degli affari agitare davanti agli occhi dei cittadini lo spauracchio delle dittature classiche. Fra i luoghi importanti di visita turistica in Corea c’è senza dubbio il monumento eretto sul 38° parallelo, dal quale si osserva quel fiume che divide i due paesi dalla fine della seconda guerra mondiale. Analogamente a quanto avvenne in Europa con la sconfitta del nazi-fascismo, anche la Corea, occupata per 35 anni dall’impero giapponese, venne ripartita in una zona sovietica e in una americana. Teatro di scontri sanguinosi e laceranti nella guerra civile fra il 1950 e il ‘53, il fiume separa due luoghi che, a partire dalle diverse visioni del mondo, sono cambiati anche per ambiente e geografia. Colpisce, dalla sponda sud, osservare quel nord silenzioso e scarsamente illuminato dove domina una jungla che avvolge anche idealmente di mistero un paese sconosciuto per chiusura quasi impermeabile. Eppure, come di fronte ad ogni muro, reticolato e diaframma culturale, i coreani continuano a cercarsi e ricercarsi, caparbiamente interessati a conservare legami familiari ed amicali spezzati dalle divisioni politiche ed amministrative. Parlando con un soldato dall’inglese stentato mi sono sentito dire: “eppure di qua e di là mangiamo le stesse alghe bollite… siamo la stessa gente”. Le alghe: ci sono momenti nei quali lo scontro culturale e di civiltà si fa palpabile fra oriente ed occidente. Assicuro i lettori che, anche armato della migliore volontà ed apertura, sedersi come ci è capitato in un bistrot di cucina tradizionale, di fronte ad una scodella di alghe bollite non è possibile farcela.
Si tratta di vegetali elastici del colore e della consistenza di una camera d’aria di bicicletta, lunghi circa un metro, e serviti senza particolari orpelli come piatto principale. Al primo assaggio si rimane disturbati dal sapore di mare di porto, di risacca; poi si passa alla consistenza e ci si rende conto dell’impossibilità di andare avanti. Va da se che il gruppo nella prima esperienza a Seoul dette prova di completa insofferenza verso i piatti tipici locali e tese ad orientarsi per il resto del soggiorno verso pizzerie dalle insegne e dagli odori industriali più rassicuranti. L’ultimo riferimento doveroso alla tradizione culinaria coreana necessita di ricorrere ad un aneddoto. In una domenica di sole parte del gruppo si recò a svagarsi in un grande parco pubblico. Improvvisamente sopraggiunse un velocipede che al suono della trombetta richiamava soprattutto i bambini come accade da noi col gelataio. Osservo la scena e fra l’incredulo e il divertito metto a fuoco che cosa vendeva l’ambulante: insetti vivi di ogni specie, grado e forma, molti dei quali sono normalmente raffigurati sugli spray che servono da noi per sterminarli o sui furgoni della disinfestazione. I bambini felicissimi col soldino in mano scambiavano la banconota con un cono di carta dove al posto di olive e castagne c’era in tutta la sua croccantezza una manciata di insetti carbonizzati al momento su una lastra rovente. Sono queste in effetti le sfide più tollerabili, per quanto insidiose, del multiculturalismo dell’epoca che ci tocca di vivere. Senza pregiudizi, con curiosità ed apertura, gli sbandieratori anche in Corea si sono confrontati con le diversità, interrogandosi e mettendosi in discussione. Ma pur senza rimpiangere lo spaghetto, di fronte all’insetto flambeau abbiamo battuto in ritirata!
da “L’Alfiere” – n. I – 2017, pagg. 6-7